La fortezza Brenta - Cismon
Le fortificazioni dello sbarramento "Brenta-CIsmon"
Forte Tombion
Fu edificato tra il 1886 e il 1898 in sostituzione dell’antico forte del Covolo di Butistone. Durante i lavori vennero alla luce interessanti reperti archeologici tra cui tombe a cremazione, monete romane del basso impero e un bronzetto di Mercurio del I-II sec.d.C. Il forte sbarrava completamente la gola di Primolano; comprendeva come armamento principale 2 batterie di 5 cannoni rivolte verso Primolano e verso Cismon, difese da 2 profondi fossati di gola. Un muro fortificato con feritoie per fucileria si trovava lungo la "Strada del Genio". L’opera fu disarmata all’inizio del conflitto mondiale. Fu fatto saltare dai partigiani nel 1944 e fu demolito in parte con l’allargamento della sede stradale.
Il complesso dispositivo di difesa militare costituito dal Forte della Scala, dal Covolo di Butistone, dalla Bastia di Enego, dal Forte Tombion, dal ponte di Cismon col Pedancino, dal ponte della Piovega con le mulattiere di arroccamento "Piovega di sotto" e "Strada del Genio", costituisce un importante esempio di architettura militare che comprende fortificazioni che vanno dal Medioevo al 1900.
anno di costruzione: 1885
armamento: 10 obici da 15 GRC/ret
4 mortai da 15 AR/ret
2 cannoni da 9ARC/ret a tiro rapido
compiti: chiusura della strada della Valsugana
guarnigione: 180 uomini
Il complesso dispositivo di difesa militare costituito dal Forte della Scala, dal Covolo di Butistone, dalla Bastia di Enego, dal Forte Tombion, dal ponte di Cismon col Pedancino, dal ponte della Piovega con le mulattiere di arroccamento "Piovega di sotto" e "Strada del Genio", costituisce un importante esempio di architettura militare che comprende fortificazioni che vanno dal Medioevo al 1900.
anno di costruzione: 1885
armamento: 10 obici da 15 GRC/ret
4 mortai da 15 AR/ret
2 cannoni da 9ARC/ret a tiro rapido
compiti: chiusura della strada della Valsugana
guarnigione: 180 uomini
Il complesso, nella parte ovest, presenta numerosi danni operati dagli italiani durante la ritirata del novembre ‘17 e da bande partigine nel 1944, intenzionate ad interrompere il tunnel ferroviario, senza contare le devastazioni conseguenti ai progressivi allargamenti della sede stradale. Il muro a protezione dei fucilieri dal lato del Brenta, porzioni delle casematte delle batterie e dell’edificio centrale. Del tutto scomparse sono la cisterna e la fontana d’acqua sorgiva che le planimetrie ottocentesche collocavano all’interno dell’opera. Un moderno sotto-passaggio, ricavato in corrispondenza del fossato meridionale del forte, permette ai pedoni di raggiungere il piazzale della corsia stradale diretta a nord, (lato EST) adiacente alla linea ferroviaria, dove un pertugio nel muro in pietrame (chiuso da un cancello) conduce alla porzione meglio con servata dell’opera, restano il muro con ferìtoie parallelo alla rotabile sul suo lato orientale e le ampie bocche semilunari entro le quali potevano venire ritirati verso la montagna i ponti scorrevoli che scavalcavano i fossati. Oltre la ferrovia la costruzione si presenta a due piani dalle murature e coperture ancora perfettamente conservate, nonostante la scomparsa dei solai lignei dei primo piano. Il deposito delle munizioni e della balistite ne occupava la parte destra; e, proprio nell’ intercapedine ricavata controroccia all’ altezza del magazzino delle polveri, una sorgente perenne sgorga limpidissima con modeste variazioni di portata stagionali. A sud dell’edificio, in corrispondenza del fronte meridionale della tagliata, inizia una faticosa gradinata di una settantina di scalini (l’alzata media misura quasi 40 cm!) che sale lungo il lato interno della postazione Sud per tiratori, munita di interessanti feritoie a strombatura interna di sapore quasi medievale. Da qui, un incerto sentiero conduce alla postazione dei fucilieri.
testo e illustrazioni tratte dal libro "Soldati e Fortezze tra Asiago ed il Grappa" edito dal Gino Rossato Editore di Girotto Luca
Castello della Scala e il Forte della Scala
imane un rudere al primo tornante delle "Scale di Primolano". Lo troviamo nominato nel 1260, ma è certamente più antico e faceva parte del dispositivo difensivo per il controllo sulla Valsugana. Da documenti risulta che: "Alla sommità girava un terrazzo, protetto d’innanzi da merli con piombatoi, donde lanciar pietre, frecce, olio bollente, più tardi mitraglie e palle, da principio, di pietra". Nel 1260 era guardato da una guarnigione della contea vescovile di Feltre. Passa agli Scaligeri e Cangrande lo restaura nel 1322, ai conti del Tirolo, ai Carraresi, ai Visconti e a Bassano nel 1420; dopo la guerra di Cambrai passa ai feltrini nel 1515 che lo ampliano e diviene un posto di confine in contrapposizione al Covolo di Butistone.
Fu demolito nel 1850 con la costruzione della nuova strada e a sostituirlo fu edificata l’imponente fortificazione della "Tagliata Scala e Fontanella". La Tagliata comprendeva un forte in muratura ed era armato da 4 cannoni da 75 A, 3 pezzi da 42 a tiro rapido e 4 mitragliere; era appoggiato da uno sbarramento, con feritoie per fucileria, che attraversava tutta la valle e si collegava con una ridotta alla parte opposta. Una galleria coperta, munita di feritoie per fucileria, la collegava alla batteria Fontanelle, posta alla sommità del passo, munita di 4 pezzi da 149 G, a fusto d’assedio in casamatta, e 4 da 75 A.
Di queste imponenti opere restano ancora gran parte delle strutture, sebbene in precario stato di conservazione, mentre alle Fontanelle è subentrata una cava per pietre.
Fu demolito nel 1850 con la costruzione della nuova strada e a sostituirlo fu edificata l’imponente fortificazione della "Tagliata Scala e Fontanella". La Tagliata comprendeva un forte in muratura ed era armato da 4 cannoni da 75 A, 3 pezzi da 42 a tiro rapido e 4 mitragliere; era appoggiato da uno sbarramento, con feritoie per fucileria, che attraversava tutta la valle e si collegava con una ridotta alla parte opposta. Una galleria coperta, munita di feritoie per fucileria, la collegava alla batteria Fontanelle, posta alla sommità del passo, munita di 4 pezzi da 149 G, a fusto d’assedio in casamatta, e 4 da 75 A.
Di queste imponenti opere restano ancora gran parte delle strutture, sebbene in precario stato di conservazione, mentre alle Fontanelle è subentrata una cava per pietre.
La tagliata Fontanelle
Clicca
anno di costruzione: 1892 - 1895
armamento: 4 cannoni da 12 BRC/ret
2 da 87 in casamatta
compiti: dominava la strada per Fastro e la deviazione per Mellame e Rivai e l'accesso per l'altopiano di Sorist
guarnigione: 40 uomini
La struttura era circondata da un fossato perimetrale, e il sistematico ricorso ai rinterri con materiale di risulta, allo scopo di defilare e proteggere, ha creato attorno all’opera una sorta di collina artificiale che solo sulla fronte nord, in corrispondenza delle 4 cannoniere dell’ armamento principale, viene meno per non limitare il campo di tiro. Sul cortile del la batteria si aprono le casematte dei cannoni da 120G e, ai lati di queste, altre due casematte cieche con funzione di riservette. Su tutte si stende ancor oggi l’originario terrapieno teoricamente destinato proteggere i sottostanti locali. All’estremità occidentale, il perimetro della torre del corpo di guardia ed il relativo fossato, scavato nella roccia e sopraelevato rispetto a quello del corpo della batteria.
La tagliata in origine posta sulla cima scala, sbarrava direttamente la strada Primolano – Fastro – M.Sorist.
Essa era sostanzialmente una batteria sprofondata in terreno di riporto. Un fossato largo 4 metri e profondo altrettanti circondava l’intero complesso con pareti di scarpa e controscarpa in muratura, mentre l’unico accesso avveniva mediante un ponte in ferro scorrevole all’indietro. La costruzione era articolata su due piani.
Nel sotterraneo si trovava la polveriera ed una capiente cisterna per l’acqua.
Al pianterreno le 4 casematte dei pezzi erano aperte sul retro per lo sfogo dei fumi e le munizioni erano conservate nei locali alle due estremità. Le rimanenti casematte ospitavano le camerate, il comando, i servizi e la cucina.
All’esterno del fossato era presente una costruzione in pietra dotata di feritoie per fucilieri e per pezzi a tiro rapido, essa guardava verso il Monte Sorist e nel sotterraneo forniva il collegamento con la caponiera coperta.
Il “corpo di guardia esterno” era costituito da una costruzione a torre su due piani circondata a sua volta da un fossato scavato nella roccia a colpi di mina. La fortificazione poteva ospitare 40 uomini, in caso di conflitto 90.
Anch’essa venne gravemente danneggiata durante la ritirata sul Grappa, ma venne poi definitivamente demolita dagli austriaci nell’ottobre 1918.
Gli armamenti originariamente erano composti da: 4 pezzi da 120B e 2 pezzi a tiro rapido; nel 1904 vennero ridotti a: 4 pezzi da 120B con una dotazione di 2400 colpi.
qui per modificare.
anno di costruzione: 1892 - 1895
armamento: 4 cannoni da 12 BRC/ret
2 da 87 in casamatta
compiti: dominava la strada per Fastro e la deviazione per Mellame e Rivai e l'accesso per l'altopiano di Sorist
guarnigione: 40 uomini
La struttura era circondata da un fossato perimetrale, e il sistematico ricorso ai rinterri con materiale di risulta, allo scopo di defilare e proteggere, ha creato attorno all’opera una sorta di collina artificiale che solo sulla fronte nord, in corrispondenza delle 4 cannoniere dell’ armamento principale, viene meno per non limitare il campo di tiro. Sul cortile del la batteria si aprono le casematte dei cannoni da 120G e, ai lati di queste, altre due casematte cieche con funzione di riservette. Su tutte si stende ancor oggi l’originario terrapieno teoricamente destinato proteggere i sottostanti locali. All’estremità occidentale, il perimetro della torre del corpo di guardia ed il relativo fossato, scavato nella roccia e sopraelevato rispetto a quello del corpo della batteria.
La tagliata in origine posta sulla cima scala, sbarrava direttamente la strada Primolano – Fastro – M.Sorist.
Essa era sostanzialmente una batteria sprofondata in terreno di riporto. Un fossato largo 4 metri e profondo altrettanti circondava l’intero complesso con pareti di scarpa e controscarpa in muratura, mentre l’unico accesso avveniva mediante un ponte in ferro scorrevole all’indietro. La costruzione era articolata su due piani.
Nel sotterraneo si trovava la polveriera ed una capiente cisterna per l’acqua.
Al pianterreno le 4 casematte dei pezzi erano aperte sul retro per lo sfogo dei fumi e le munizioni erano conservate nei locali alle due estremità. Le rimanenti casematte ospitavano le camerate, il comando, i servizi e la cucina.
All’esterno del fossato era presente una costruzione in pietra dotata di feritoie per fucilieri e per pezzi a tiro rapido, essa guardava verso il Monte Sorist e nel sotterraneo forniva il collegamento con la caponiera coperta.
Il “corpo di guardia esterno” era costituito da una costruzione a torre su due piani circondata a sua volta da un fossato scavato nella roccia a colpi di mina. La fortificazione poteva ospitare 40 uomini, in caso di conflitto 90.
Anch’essa venne gravemente danneggiata durante la ritirata sul Grappa, ma venne poi definitivamente demolita dagli austriaci nell’ottobre 1918.
Gli armamenti originariamente erano composti da: 4 pezzi da 120B e 2 pezzi a tiro rapido; nel 1904 vennero ridotti a: 4 pezzi da 120B con una dotazione di 2400 colpi.
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La Tagliata della Scala
anno di costruzione: 1892 - 1895
armamento: 6 cannoni da 12 BR/ret
4 cannoni da 9 BR/ret
4 cannoni a tiro rapido
compiti: sbarramento per la strada che porta a Feltre da Primolano quanto per la Valsugana
guarnigione: 200 uomini
La tagliata aveva nel cortile interno ove, contro la roccia, dei laboratori per la preparazione dei cartocci ed il caricamento dei proiettili. Sulla spianata del cortile, c'erano i pozzetti della capiente cisterna del l’acqua potabile. Sull'estremità Ovest del forte, c'era la piattaforma per le artiglierie in barbetta. Qui, nella parete retrostante, c'era l’ingresso della batteria incavernata realizzata nel periodo di neutralità agosto 1914 aprile 1915: e quattro casematte in roccia per artiglierie di medio calibro, una postazione blindata doppia per mitragliatrici e alcune riservette. Al primo piano della facciata ovest erano posizionate le latrine, un tempo raggiungibili dal ballatoio esterno che percorreva il fronte di gola dell’opera.
Dall’ottavo tornante il camminamento coperto di collegamento con la Tagliata Fontanelle. La salita lungo il camminamento perfettamente conservato e agibile permette di apprezzare la intelligente disposizione della galleria a dominio della sottostante strada.
la tagliata Scala a fine 1917.
La Tagliata in origine consisteva di una batteria in casamatta di forma ricurva, di una piattaforma d’artiglieria attigua al lato ovest e di una galleria casamattata per fucilieri sul lato est, attraverso la quale passava la strada in un androne a volta richiudibile.
La batteria era preceduta da un fossato, oggi in parte sbancato da ampliamenti e rettifiche della sede stradale, largo 5 metri e fondo 6 con una controscarpa in muratura. Si estendeva su tre piani.
I sotterranei, la cui parete frontale aveva uno spessore di 3 metri, ospitavano degli umidi locali utilizzati come alloggio, cucina e magazzino viveri ad ovest, mentre l’estremità est era occupata dalla polveriera e dalla cisterna per l’acqua.
Lungo la batteria, verso l’esterno, correva una trincea scoperta profonda 4 metri con la funzione di garantire la giusta aerazione del sotterraneo.
Il piano terra ospitava 8 casematte. Le prime sei, aperte sul lato posteriore, erano riservate all’artiglieria poiché dotate di un ampio settore di tiro laterale. Le ultime due invece erano adibite ad alloggi come la totalità delle casematte del primo piano, riservate al comando e agli ufficiali. Un magazzino per le munizioni di pronto impiego era ricavato da due caverne i cui ingressi davano sul cortile interno.
Dalle scale interne che univa tutti i piani si accedeva ad una costruzione a forma di torre che si collegava con la caponiera, coperta e munita di feritoie. Essa costituiva un camminamento coperto per il rapido spostamento dei soldati tra le due Tagliate che proseguiva a spezzoni adattandosi alla forma del terreno.
La caponiera era ad un unico piano, protetta da una volta al di sopra della quale era presente un terrapieno di 1.5 metri. Lo scopo principale dell’opera era quello di impedire, in caso di caduta della Tagliata inferiore, l’avvicinamento a quella superiore.
La galleria per fucilieri ad est della batteria era formata da 28 casematte in pietra definite “a prova di granata”, dotate di feritoie. All’interno le casematte erano adibite a magazzino viveri ed alloggio. Alla fine della galleria, mediante scala, si accedeva al “corpo di guardia esterno” che possedeva feritoie per artiglierie a tiro rapido.
La guarnigione era di 200 uomini, raddoppiabili in caso di conflitto.
Quest’opera d' ingegneria militare rimase inutilizzata durante la guerra e fu abbandonata il 12 novembre 1917 di fronte all’avanzata austriaca, affinché le truppe potessero unirsi a quelle già schierate sul Grappa.
La struttura fu parzialmente distrutta perché non cadesse in mano nemica.
Gli armamenti originariamente erano composti da: 6 cannoni da 120 B, 4 cannoni da 90 mm e da 4 pezzi a tiro rapido; nel 1904 vennero ridotti a: 3 cannoni da 87 B, 3 cannoni da 42 mm a tiro rapido e da 4 mitragliere Gardner a due canne.cca qui per modificare.
La Grottella
La roccia e la sorgente
La via postale che - fin dalle epoche più remote - percorre la Valle del Brenta, si snoda su un percorso più in quota dell’attuale tracciato stradale. Superato il gomito di Carpanè, sale la riva alta per poi abbassarsi fino quasi al Brenta, proprio in corrispondenza di uno sperone roccioso. Qui una sorgente perenne si getta nel fiume. Il luogo è noto, da sempre, come “Grottella”. Un’osteria, costruita proprio a ridosso della sorgente, sfrutta l’acqua freschissima per raffreddare il vino e la birra. Il fabbricato è presente nel catasto napoleonico del 1812. Si può, quindi, ammetterne l’esistenza almeno fin dal ‘700. Alla Grottella si fermano i carrettieri di passaggio. Il vino, la birra e l’acqua della sorgente sono di ristoro per uomini e animali.
La guerra
Le gigantesche trasformazioni del XX secolo arrivano con il rombo della Grande Guerra. L’arretramento del fronte, dopo il disastro di Caporetto, coinvolge direttamente la Valbrenta. La popolazione viene evacuata e proprio qui, alla Grottella, l’esercito italiano predispone la prima linea di sbarramento. Il primo ordine di reticolati è steso a un centinaio di metri più a nord della sorgente. Le postazioni, in sinistra Brenta, si spingono dal fondovalle fino alle Rocce Anzini. In destra Brenta, dall’abitato di Giara Modon al Col Carpenedi e, correndo sotto i roccioni del Sasso Rosso, a Costa Grigio. L’osteria è trasformata. Un avancorpo verso nord viene munito di mitragliatrice e un passaggio, scavato nella roccia, la collega alla contigua galleria ferroviaria. L’organizzazione difensiva della Vallata è scaglionata in profondità. Ben sette linee principali collegano altrettanti sbarramenti di fondovalle con i capisaldi sulle alture ai fianchi. Le linee possono essere così schematizzate.
1. Sbarramento della Grottella: da Col del Miglio ai roccioni di Costa Grigio.
2. Sbarramento di San Gaetano: dal Col Moschin ai roccioni di Costa Grigio.
3. Sbarramento di Valstagna: dal Col Moschin al Col d’Astiago.
4. Sbarramento del Merlo: dal Col Moschin al Monte Campolongo.
5. Sbarramento di Mi gnano: dal Col Raniero al Monte Caina.
6. Sbarramento di Solagna: dal Monte Gusella al Monte Caina.
7. Sbarramento di Pove: da Pove al Monte Campesana.
Alla difesa della Vallata viene assegnato il XX corpo d’armata che schiera sul terreno due divisioni. La divisione di destra, da Rocce Anzini a Costa Grigio, copre gli sbarramenti a cavallo del Brenta. Quella di sinistra, da Costa Grigio alla Val Frenzela, ha lo scopo di bloccare eventuali irruzioni verso Valstagna. La divisione di destra, a cavallo del Brenta, dispiega una brigata in linea e un’altra in riserva, a Valrovina. L’ordine di battaglia della brigata in linea può essere schematizzato come segue.
- Due battaglioni allo sbarramento di Grottella. Uno in sinistra Brenta, dal fondovalle alle Rocce
Anzini. L’altro, in destra orografica, da Giara Modon, al Col Carpenedi e a Costa Grigio
- Due battaglioni sulla linea che, da Carpanè, sale per Costa Alta fin sotto il Col Moschin.
- Un battaglione di rincalzo in Val delle Ore.
- Un battaglione allo sbarramento del Merlo.
Il battaglione alla Grottella è così disposto: due compagnie in prima linea, la terza compagnia sulla linea arretrata fra Val della Corda e Pian dei Zocchi. A loro volta, le due compagnie in prima linea hanno quattro plotoni in postazione e gli altri quattro in diretto rincalzo. Nella galleria ferroviaria collegata all’osteria, probabilmente, stazionava uno dei plotoni destinati al rincalzo. Il poderoso sistema difensivo italiano viene messo alla prova con l’ultima e disperata offensiva austro – ungarica, nel giugno del 1918. Dopo alcune ore di bombardamento preliminare, nella mattinata del 15 giugno le fanterie passano all’attacco. Uno dei maggiori successi è colto sul Grappa, nella zona dei Colli Alti, sul fianco destro dello schieramento a difesa del Canale. Gli ungheresi, travolto il Col del Miglio, avanzano per qualche chilometro, fino a occupare il Col Moschin. Per evitare un avvolgimento alle spalle, le truppe a presidio dello sbarramento di Grottella arretrano sulla linea di San Gaetano. Verso sera, nel settore dei Colli Alti, la situazione migliora. Il giorno dopo viene ripreso il Col Moschin e, successivamente, anche il Col del Miglio. Nel Canale, perciò, non sono necessari ulteriori ripiegamenti. Nei mesi estivi, anzi, una serie di piccole azioni permette la rioccupazione del terreno perduto. Lo sbarramento di Grottella è ripreso integralmente con l’azione del 14 settembre 1918. L’ultima battaglia, l’offensiva italiana del 24 ottobre, si risolve con il collasso dell’esercito avversario. I reggimenti ungheresi, schierati di fronte allo sbarramento di Grottella, nella notte sul 30 ottobre abbandonano il fronte.icca qui per modificare.
La via postale che - fin dalle epoche più remote - percorre la Valle del Brenta, si snoda su un percorso più in quota dell’attuale tracciato stradale. Superato il gomito di Carpanè, sale la riva alta per poi abbassarsi fino quasi al Brenta, proprio in corrispondenza di uno sperone roccioso. Qui una sorgente perenne si getta nel fiume. Il luogo è noto, da sempre, come “Grottella”. Un’osteria, costruita proprio a ridosso della sorgente, sfrutta l’acqua freschissima per raffreddare il vino e la birra. Il fabbricato è presente nel catasto napoleonico del 1812. Si può, quindi, ammetterne l’esistenza almeno fin dal ‘700. Alla Grottella si fermano i carrettieri di passaggio. Il vino, la birra e l’acqua della sorgente sono di ristoro per uomini e animali.
La guerra
Le gigantesche trasformazioni del XX secolo arrivano con il rombo della Grande Guerra. L’arretramento del fronte, dopo il disastro di Caporetto, coinvolge direttamente la Valbrenta. La popolazione viene evacuata e proprio qui, alla Grottella, l’esercito italiano predispone la prima linea di sbarramento. Il primo ordine di reticolati è steso a un centinaio di metri più a nord della sorgente. Le postazioni, in sinistra Brenta, si spingono dal fondovalle fino alle Rocce Anzini. In destra Brenta, dall’abitato di Giara Modon al Col Carpenedi e, correndo sotto i roccioni del Sasso Rosso, a Costa Grigio. L’osteria è trasformata. Un avancorpo verso nord viene munito di mitragliatrice e un passaggio, scavato nella roccia, la collega alla contigua galleria ferroviaria. L’organizzazione difensiva della Vallata è scaglionata in profondità. Ben sette linee principali collegano altrettanti sbarramenti di fondovalle con i capisaldi sulle alture ai fianchi. Le linee possono essere così schematizzate.
1. Sbarramento della Grottella: da Col del Miglio ai roccioni di Costa Grigio.
2. Sbarramento di San Gaetano: dal Col Moschin ai roccioni di Costa Grigio.
3. Sbarramento di Valstagna: dal Col Moschin al Col d’Astiago.
4. Sbarramento del Merlo: dal Col Moschin al Monte Campolongo.
5. Sbarramento di Mi gnano: dal Col Raniero al Monte Caina.
6. Sbarramento di Solagna: dal Monte Gusella al Monte Caina.
7. Sbarramento di Pove: da Pove al Monte Campesana.
Alla difesa della Vallata viene assegnato il XX corpo d’armata che schiera sul terreno due divisioni. La divisione di destra, da Rocce Anzini a Costa Grigio, copre gli sbarramenti a cavallo del Brenta. Quella di sinistra, da Costa Grigio alla Val Frenzela, ha lo scopo di bloccare eventuali irruzioni verso Valstagna. La divisione di destra, a cavallo del Brenta, dispiega una brigata in linea e un’altra in riserva, a Valrovina. L’ordine di battaglia della brigata in linea può essere schematizzato come segue.
- Due battaglioni allo sbarramento di Grottella. Uno in sinistra Brenta, dal fondovalle alle Rocce
Anzini. L’altro, in destra orografica, da Giara Modon, al Col Carpenedi e a Costa Grigio
- Due battaglioni sulla linea che, da Carpanè, sale per Costa Alta fin sotto il Col Moschin.
- Un battaglione di rincalzo in Val delle Ore.
- Un battaglione allo sbarramento del Merlo.
Il battaglione alla Grottella è così disposto: due compagnie in prima linea, la terza compagnia sulla linea arretrata fra Val della Corda e Pian dei Zocchi. A loro volta, le due compagnie in prima linea hanno quattro plotoni in postazione e gli altri quattro in diretto rincalzo. Nella galleria ferroviaria collegata all’osteria, probabilmente, stazionava uno dei plotoni destinati al rincalzo. Il poderoso sistema difensivo italiano viene messo alla prova con l’ultima e disperata offensiva austro – ungarica, nel giugno del 1918. Dopo alcune ore di bombardamento preliminare, nella mattinata del 15 giugno le fanterie passano all’attacco. Uno dei maggiori successi è colto sul Grappa, nella zona dei Colli Alti, sul fianco destro dello schieramento a difesa del Canale. Gli ungheresi, travolto il Col del Miglio, avanzano per qualche chilometro, fino a occupare il Col Moschin. Per evitare un avvolgimento alle spalle, le truppe a presidio dello sbarramento di Grottella arretrano sulla linea di San Gaetano. Verso sera, nel settore dei Colli Alti, la situazione migliora. Il giorno dopo viene ripreso il Col Moschin e, successivamente, anche il Col del Miglio. Nel Canale, perciò, non sono necessari ulteriori ripiegamenti. Nei mesi estivi, anzi, una serie di piccole azioni permette la rioccupazione del terreno perduto. Lo sbarramento di Grottella è ripreso integralmente con l’azione del 14 settembre 1918. L’ultima battaglia, l’offensiva italiana del 24 ottobre, si risolve con il collasso dell’esercito avversario. I reggimenti ungheresi, schierati di fronte allo sbarramento di Grottella, nella notte sul 30 ottobre abbandonano il fronte.icca qui per modificare.
PER GENTILE CONCESSIONE DEL SIG. BASSANI FABRIZIO E DEL "GRUPPO GROTTE GIARA MODON" DI VALSTAGNA
La linea fortificata Brenta – Cismon
dal 1870 alla I guerra mondiale
La storiografia sulla I guerra mondiale, fino ad oggi ha analizzato vari aspetti della vita militare e civile degli anni del conflitto, comprese le opere fortificate italiane ed austriache costruite a partire dai primi anni del 1900 al confine tra l’Italia e l’impero asburgico.
L’interesse dello storico e dell’appassionato, trattando l’argomento della cosiddetta “guerra dei forti”, si è indirizzato verso le fortificazioni italiane dell’altipiano di Asiago e verso quelle della cintura fortificata degli altipiani di Folgaria, Lavarone e Vezzena, tralasciando completamente di trattare altri settori, come ad esempio il Friuli, il Veronese, il settore bresciano per l’Italia, e, sull’altro versante, la fortezza di Trento, le Giudicarie, il Tonale, per le opposte fortificazioni austriache. Il motivo di questo mancanza è dovuto a molti fattori, uno dei quali fu che solamente i forti dell’altopiano di Asiago e quelli degli altipiani trentini vennero interessati dalle operazioni militari, mentre tutti gli altri forti ebbero una vita breve e priva di qualsiasi episodio degno di nota.
Uno dei settori, fino ad ora poco studiato, è stato quello dello sbarramento Brenta – Cismon, dove solo recentemente, con due pubblicazioni, W.A. Dolezal, I forti dimenticati e L. Girotto, 1866 – 1918. Soldati e fortezze tra Asiago e il Grappa, si è iniziata l’opera di riscoperta delle fortificazioni italiane costruite nella Valsugana a partire dal 1880, che non ebbero una vita bellica ricca di episodi, ma solamente una normale funzione di vigilanza, essendo molto lontane dalle prime linee. Questo saggio, partendo dalla varie decisioni di politica fortificatoria, delinea lo sviluppo delle fortificazioni del settore Brenta – Cismon fino ad arrivare allo scoppio della 1ª guerra mondiale, per concludere con i brevi combattimenti che ci furono nei primi giorni del novembre 1917, dopo i quali le fortificazioni italiane della Valsugana, occupate dagli austriaci, vennero abbandonate dal nemico solo alla fine della guerra.
1. La guerra del 1866 e la situazione delle difese in Valsugana.
Per avere una visione più chiara e il più possibile completa della linea fortificata alpina ed in particolare di quella inerente la linea Brenta – Cismon, occorre ripercorrere il lungo e travagliato iter politico – amministrativo che portò alla creazione dello sbarramento Brenta – Cismon.
Al termine della guerra del 1866, l’analisi compiuta dai comandi militari italiani, incaricati di redigere un piano generale delle fortificazioni per il regno d’Italia, dopo aver preso in considerazione il nuovo confine tra l’Italia e l’Austria – Ungheria, in particolar modo per quanto riguardava la zona della Valsugana, mise in evidenza l’importanza della zona compresa nel triangolo Primolano – Fonzaso – Cismon, per lo sbarramento del Canal del Brenta e per la difesa delle strade che, a sud di Primolano, si dipartivano dalla rotabile Bassano – Trento e la collegavano, da una parte con Feltre e, dall’altra, con l’altipiano dei Sette Comuni.
Nella relazione a corredo del Piano generale di difesa dell’Italia della Commissione Permanente della Difesa dello Stato, la Commissione Permanente per la difesa dello stato aveva indicato alcuni punti o zone da fortificare, in tutto 47 località, tra le quali figurò anche Primolano. Pure la versione ridotta del piano di difesa mantenne la posizione in Valsugana, prevedendo per essa uno stanziamento complessivo per £. 1.300.000. A tale scopo, per meglio attuare gli indirizzi espressi dal piano ridotto, tra il 1875 ed il 1879 venne istituita una Commissione militare per la difesa delle Alpi. Il lavoro della Commissione fu di visitare i luoghi per ipotizzare ampi lavori di fortificazione per controbilanciare lo sfavorevole andamento del confine trentino, dove un cuneo di territorio tirolese si spingeva minacciosamente a sud – est lungo la valle del Brenta, tra rilievi laterali tutti in possesso dell’Italia.
La prima direttrice di marcia di un eventuale aggressore era ovviamente quella che seguiva il corso del Brenta dal confine di Martincelli verso Primolano e Cismon. Ad essa si affiancava una via secondaria attraverso la quale le forze austriache, partendo dalla conca del Tesino, sarebbero calate su Arsiè, Fastro e Primolano attraverso l’altipiano del Celado, per minacciare Cismon sia confluendo nella colonna principale lungo il Brenta sia aggirando il massiccio del Col del Gallo passando dai villaggi di Rocca ed Incino. Un’altra linea poteva essere quella della regione di Frizone tirolese, perché attraverso essa si potevano conquistare sia Cismon che Primolano. Oltre ad essere in pericolo la città di Bassano, analoghi problemi aveva Feltre, che era minacciata sia dalle rotabili provenienti dalle valle di Fiemme, che dalla valle del Cismon.
Per tali motivi, la Commissione, fin dal 1879, sosteneva che per quanto riguardava la Valsugana, sussisteva la necessità del possesso della posizione delle alture di Aldegana e di Novegno, interposte fra la strada Arsiè – Primolano e lo sbocco del Cismon sul Brenta. Dopo un’attenta disamina della situazione in cui si venivano a trovare le due posizioni citate, che potevano essere battute da artiglierie appostate verso nord – ovest, valeva a dire nella zona di Castel Tesino, di Cima Cicogna. Per tale motivo la Commissione propose di occupare la posizione di Cima Campo con un’opera permanente che aveva il duplice scopo di interdire agli avversari l’avanzata attraverso Castel Tesino per arrivare, tramite Cima Campo, ad Arsiè, sia di favorire con l’azione delle artiglierie un’offensiva italiana che da Primolano doveva arrivare alla conca del Tesino[1].
Nel 1880, la Commissione propose la costruzione di una caserma difensiva a Cima Campo ed una a Cima Lan, che potevano contenere 300 uomini ciascuna. La funzione di queste opere difensive era quella di rafforzare Cima di Lan ad est dell’anzidetta ed anche di proteggere la ritirata su Arsiè delle truppe della difesa che avessero dovuto abbandonare la posizione di Cima di Campo. Questa proposta fu poi confermata dal comandante del III corpo d’armata nel piani direttivi delle fortificazioni di quella frontiera, inviato il 4 luglio 1882 ed approvato dal ministero della guerra con dispaccio in data 20 luglio. Oltre alle caserme, il progetto prevedeva che nel territorio fosse stanziato un battaglione di 800 o 1000 uomini.
Una volta che il progetto venne approvato da parte della direzione del genio di Verona, vennero compilati i progetti particolareggiati relativi alle due caserme per la loro costruzione. Questi progetti rimasero sulla carta a causa della situazione finanziaria dello stato italiano. Al posto di queste caserme difensive, vennero costruite le tagliate stradali del Tombion, della Scala, delle Fontanelle e Covolo di S. Antonio. La prima che venne edificata fu quella del Tombion, i cui lavori iniziarono nel 1884; il compito di quest’opera difensiva erano di sbarrare la strada proveniente dal confine di Primolano, per fare in modo che il nemico non potesse raggiungere Bassano e la pianura veneta. Data la posizione, la tagliata Tombion non poteva controllare e difendere la città di Feltre e per tale motivo vennero costruite la Tagliata Covolo di S. Antonio, nella zona di Fonzaso, e il sistema difensivo di Primolano con le Tagliate della Scala e delle Fontanelle.
Queste fortificazioni, costruite in pietra, armate con cannoni di piccolo calibro e mitragliatrici, secondo le direttive urgenti in quel tempo controllavano le provenienze dalle rotabili di confine. Lo sbarramento di Primolano fu l’ultimo in ordine di tempo ad essere costruito; la progettazione del sistema difensivo italiano iniziò nel 1882 e si concluse con il 1886. I lavori iniziarono con notevole ritardo rispetto alle altre opere, anche a causa di alcune diatribe burocratico – amministrative che contrapposero l’amministrazione militare e le comunità locali interessate agli espropri al momento dell’acquisizione dei terreni e della definizione delle servitù. I cantieri vennero aperti solamente nel 1892, ma l’attività costruttiva progredì molto velocemente, dato che già nel 1894 si era oramai alla fine dei lavori. Il progettista e direttore dei lavori fino al 1895, Giovanni Ivanoff, fu una figura molto particolare di ingegnere militare[2]; successivamente si sarebbe occupato anche dalla costruzione dei forti di Cima Campo e Cima di Lan.
Il complesso fortificato di Primolano progettato dall’ingegner Ivanoff avrebbe dovuto risolvere il problema che nei secoli scorsi aveva costantemente rappresentato il punto debole del castello medievale della Scala: dominare da vicino la conca di Primolano ed il nodo stradale che sul paese si imperniava (quindi sorgere un posizione più bassa e vulnerabile rispetto alle provenienze dalla sella di Fastro) ed allo stesso tempo controllare dall’alto la strada Arsiè – Fastro – Scala di Primolano (ovvero posizionarsi su un rilievo, anche modesto, più alto di Fastro stesso e dunque privarsi del controllo diretto del fondo della Valbrenta). Giovanni Ivanoff risolse brillantemente il problema, come sostiene Girotto “progettando due distinte fortificazioni: una inferiore, la Tagliata della Scala, ed una superiore, la Tagliata (o batteria) delle Fontanelle. La prima chiedeva a mezza costa l’intera sella di Fastro con un’opera principale sul lato ovest ed una casamatta minore sul lato est, collegate da una galleria trasversale per fucilieri a dominio dei tornati della Scala. Le sue artiglierie potevano agire in Valbrenta e teoricamente contrastare la possibile discesa nemica lungo la strada della Piovega di sopra. La seconda sorgeva sulla costa ad ovest di Fastro in località Cima della Scala, presso la frazione denominata Fastro – Bassanese, subito a destra della strada Primolano – Feltre. Le sue artiglierie battevano quest’ultima via da Fastro stesso fino al bivio delle strade per Arsiè e per Mellame. L’opera di Fontanelle sbarrava inoltre materialmente, autentica tagliata, la vecchia rotabile che da Fastro si dirigeva un tempo per Fastro Bassanese a monte Sorist costeggiando le pendici del Col dei Barc e da qui, divenuta semplice tratturo, scendeva a Tezze”[3].
Oltre alle 4 Tagliate, la cui costruzione avevano messo alla prova l’apparato tecnico – amministrativo del genio militare italiano, che avevano tra l’altro dovuto servirsi di tecnici ed imprese civili per poter rispettare i tempi prestabiliti, avevano però un raggio d’azione piuttosto ridotto relativamente al tiro delle artiglierie. Tale problema era dovuto sia alla posizione in cui erano state edificate ed anche in parte dalla disposizione sfavorevole delle feritoie che ostacolava una efficace copertura dei due versanti della valle del Brenta. A queste carenze si cercò solo parzialmente di porre rimedio con le due batterie di Col del Gallo, numericamente limitate ed in posizione troppo arretrata. Per completare il dispositivo Brenta – Cismon, vennero previste delle postazioni per artiglierie campali; tali batterie sarebbero state messe a disposizione del comando dello sbarramento solo in caso di guerra.
A seguito della sconfitta dell’esercito italiano ad Adua nel marzo 1896, nel periodo successivo, fino al 1905, continuarono i vari studi per il sistema difensivo italiano, senza per altro che venisse compiuto nessun lavoro di costruzione, in poche parole data la situazione economia dell’Italia i finanziamenti per la costruzione delle fortificazioni al confine con l’Austria – Ungheria furono congelati.
2. La costruzione dei forti di Cima Campo, Cima Lan e Lisser
Nel 1906, la sottodirezione del genio di Belluno, con atto del 13 giugno 1906, divenne Ufficio autonomo delle fortificazioni di Belluno, dipendente dal comando del genio di Verona. I lavori per la costruzione di Cima Campo iniziarono il 25 aprile 1906, dopo aver ottenuto da parte del ministero della guerra l’approvazione per la costruzione delle vasche, veniva affidata al cottimista Gorza Luigi la costruzione delle baracche degli operai che dovevano lavorare lì[4].
A partire dalla metà dell’800, si diffusero in Europa due scuole fortificatorie, definite dei forti corazzati e delle fronti corazzate. Il propugnatore della prima scuola fu il generale dell’esercito belga Henri Brialmont, il quale a partire dalla pubblicazione L’influence du tir plongeant et des obus torpilles sur la fortification del 1888 propose i forti corazzati mentre nella successiva La defense des etats et la fortification del 1895 presentò lo schema dell’organizzazione della linea di cintura di un campo trincerato[5].
Un elemento importante che aveva notevolmente modificato l’arte difensiva era stata la comparsa di granate torpedini le quali avevano una notevole potenza distruttiva. La linea di cintura del campo trincerato, proposta da Brialmont, non aveva sostanzialmente cambiato l’organizzazione difensiva fino ad allora utilizzata, essa si basava sull’impiego di opere permanenti grandi e piccole, punti di appoggio tali da poter esercitare l’azione alla grandi distanze, da presentare una difesa individuale ed autonoma.
Per poter soddisfare l’ordinamento proposto dal generale belga, si dovevano utilizzare le casamatte girevoli corazzate, per tale motivo sia Brialmont e i seguaci di questa scuola furono considerati i rappresentanti della scuola dei forti corazzati[6].
L’ideatore della scuola delle fronti corazzate fu il generale bavarese von Sauer, il quale nel libro pubblicato nel 1885 dal titolo Recherches taltiques sur les formes nouvellas de la fortification ed in alcune conferenze da lui tenute ad Ingolstadt nel 1889 espose un metodo di attacco delle fortezze, conosciuto nella storia dell’arte ossidionale, col nome di attacco alla von Sauer. Secondo le proposte di questa scuola, le grandi opere non esistevano più e la linea esterna risultava formata da una grande quantità di piccole opere corazzate e di calcestruzzo scaglionate e disposte a brevi intervalli l’una dall’altra, dandosi così reciproco appoggio in modo da costituire una vera fascia difensiva, larga un migliaio di metri, che girava attorno al corpo di piazza, a distanza variabile da esso dai 4 ai 6 km, basandosi sul concetto dell’azione frontale diffusa su tutta la linea. Per quanto riguarda le opere italiane che si costruirono a partire dagli inizi del 900, esse seguivano i dettami tecnici del modello Rocchi[7], il quale era uno dei discepolo della scuola dei forti corazzati.
I principi costruttivi del forte Rocchi vennero esposti nella pubblicazione intitolata La forticazione in montagna[8 ; questo disegno costruttivo seguiva come concetto direttivo i due principi seguenti:
1° agli effetti aumentati ed alla mobilità delle artiglierie dell’assalitore potrà la difesa ostare soltanto coll’impiego del calcestruzzo e delle corazze ed aumentarlo a sua volta la mobilità delle artiglierie della piazza;
2° per altro, per non oltrepassare i limiti generalmente ristretti delle somme assegnate nei bilanci per le costituzioni fortificatorie, non è possibile fare troppa larga applicazione dei mezzi di protezione sopra indicati (corazze a calcestruzzo) e converrà affidarsi essenzialmente alla difesa mobile[9].
Questi forti ideati da Rocchi erano disposti ad intervalli di 4 km l’uno dall’altro. Le opere erano armate con 4 o 6 cannoni da 12 cm su cupole corazzate. Oltre a ciò, all’esterno della fortezza, se il terreno lo permetteva, potevano essere disposte delle batterie costituite da obici da 15 cm.
Il fortino con torri girevoli corazzate, destinate a costruire il nucleo dell’armamento di protezione di uno sbarramento, ovvero un centro di resistenza, in appoggio a batterie scoperte, occasionali od improvvisate.
L’ordinamento in linea retta, normale nelle batterie scoperte, si presentava evidenziando opportunismo quando l’armamento era installato in torri girevoli, o in affusti corazzati, essendo anche in questo caso il più conveniente, sia per l’azione del fuoco, sia per attenuare gli effetti del tiro nemico.
Dovendo, l’accennato nucleo difensivo comportarsi come opera autonoma, occorreva l’organizzazione di un recinto di sicurezza, ai cui salienti trovavano impiego talune torrette corazzate a scomparsa per cannoni a tiro rapido di piccolo calibro, i quali oltreché alla difesa vicina, potevano, per la loro gittata (superiore ai 4000 m), concorrere all’azione lontana, tanto più che il loro settore verticale di tiro, abbastanza ampio in depressione, consentiva di battere, anche con tiri diretti, punti giacenti, in angolo morto delle bocche da fuoco corazzate, di medio calibro.
Inoltre l’opera doveva essere dotata di osservatorio in cupola e di proiettori in cupola per l’osservazione del terreno circostante il fortino.
Rocchi, calcolava approssimativamente il costo dell’opera in un milione di lire, di cui lire 500000 circa per le installazioni corazzate (nel caso dei cannoni da 12) ed altrettanto per i lavori di calcestruzzo cementizio, di muratura ordinaria, di terra ed accessori.
Agli inizi del 1906 iniziarono i lavori per la costruzione della prima fortificazione della linea Brenta – Cismon, il forte di Cima Campo. I lavori di costruzione erano diretti dal capitano del genio Antonio Dal Fabbro con l’ausilio dell’impresa Gorza Luigi di Feltre, con la quale si stipulavano delle scritture private per ogni singolo lavoro[10].
Il 26 giugno, venne costituito l’ufficio provvisorio di Cima Campo, composto dal capitano Dal Fabbro e dall’aiuto ragioniere geometra Maurizio Piperno. Il 13 luglio venne liquidato il cottimo delle vasche all’impresa Gorza per l’ammontare di £ 3.997.65, ed il primo cottimo dei lavori preliminari di £ 3.994.75. Successivamente vennero scritturate, sempre con la stessa impresa la 4 scrittura privata di £ 4.000., la 5 e la 6 sempre di £ 4.0000.
In quei mesi, oltre alla costruzione delle vasche e delle baracche, il capitano Dal Fabbro, stava progettando la costruzione di una teleferica che doveva collegare Cima Campo a Fastro, la spesa secondo il progetto sommario doveva essere di £ 1.100.00.
Nel mese di agosto vennero liquidate la 2 scrittura privata di £ 3.9979.93, la 3 di £ 3.979.95 e i lavori vennero visitati da alcuni membri della Commissione internazionale per la revisione dei confini e dal colonnello Filippa, sottodirettore dell’Ufficio delle fortificazioni di Belluno, dal generale Gobbo, comandante del V corpo d’armata, dall’Ispettore generale del genio, il comandante del genio di Verona, generale Bonazzi e dal maggiore Leoncini.
Il 5 settembre, venne liquidata la 4 scrittura dei lavori preliminari all’impresa Gorza per £ 3.999, inoltre si stipulava la 1 scrittura con il cottimista sopraddetto per i lavori di scavo dell’opera di £ 4.000.; il 12 si iniziò il tracciamento della strada d’accesso[11].
Nei mesi successivi, fu sentita la ditta Ceretti e Tanfani di Milano, per la scrittura privata per la realizzazione della teleferica e vennero stipulate con il solito cottimista le scritture 8 e 9 dei lavori preliminari, ci furono le visite del generale Bonazzi e del colonnello Filippa, una notevole diminuzione del numero di operai disponibili, ciò era dovuto all’inizio dell’anno scolastico dell’accademia di Torino, visto che alcuni degli operai erano degli allievi dell’Istituto.
A partire da novembre iniziarono a peggiorare le condizioni atmosferiche, ma questo fattore climatico non fece rallentare i lavori che avevano ritmo sostenuto guidati, dal capitano Dal Fabbro; in quel periodo continuarono gli scavi e iniziarono i lavori per le gallerie e furono ultimati i baraccamenti. L’ufficio provvisorio di Cima Campo venne sciolto il 19 dicembre.
Dall’analisi del diario dei lavori, si può dire che da aprile a dicembre del 1906 vennero eseguiti molti lavori per la costruzione del forte Cima Campo, grazie soprattutto al grosso impegno profuso dal capitano Dal Fabbro, direttore dei lavori. Il 1907 vide sulla carrareccia Fastro – Fornaci – Col Perer, che poi prosegue per Cima di Campo, un’interrotta teoria di carri che trasportavano materiali per i lavori, in aiuto alla seppur capace teleferica che partiva da Fastro – Fornaci.
Nello stesso anno, si iniziò il montaggio di una lunga teleferica composta da 32 vagoncini mossa da motore a vapore, del costo complessivo di £. 110.000, che avrebbe trasportato il materiale di costruzione (sabbia, cemento, legname, attrezzi, etc) dai pressi di Primolano – località Prà del Bec – fino alla sommità di Col dei Barc. Da qui un secondo impianto arrivava su Cima Campo, dove dai 200 ai 300 operai lavoravano con un orario giornaliero di 10 ore per una retribuzione compresa da £. 1.80 a £. 3.50. Tra di loro figuravano anche numerosi trentini, operai specializzati, abili muratori o anche semplici manovali, quasi tutti cittadini asburgici provenienti dai paesi poveri della Valsugana ed attirati da un paga regolare. Per questo motivo, non era difficile per i servizi d’informazione militare dell’esercito imperiale, mescolare tra questa gente delle spie, sia civili ma anche militari, che informavano i comandi militari austriaci dello svolgimento dei lavori di fortificazione italiana.
4. Militari e civili nel settore Brenta – Cismon: alcuni casi di spionaggio militare
Notizie sullo svolgimento dei lavori si può trovare anche nella stampa locale dell’epoca, tanto che nel 1909 il periodico “Il Vittorino di Feltre”, in un articolo intitolato “Per la difesa dell’Italia alla frontiera di Feltre” affermava: “Sulla vetta di Campo fervono i lavori sul forte grandioso che dominerà il Tesino, e i valichi battuti dai fanti e dai cavalli di Sigismondo imperatore e dalla leggenda connessi alla custodia di San Vittore”[12]. Nel 1908 iniziarono i lavori della 2 opera fortificata dello sbarramento, il forte Cima di Lan, acquattato tra larici ed abeti a 1261 metri di quota sopra la val Cismon. Nel 1910, in questo cantiere, erano attivi oltre 500 operai della ditta Gorza, con la solita nutrita rappresentanza da trentini, spioni ed onesti lavoratori che fossero.
Oltre alla funzione di direttore dei lavori delle opere fortificate, il maggiore Dal Fabbro, promosso maggiore nel 1910, in qualità di comandante del presidio dello sbarramento Brenta – Cismon, doveva assolvere degli incarichi amministrativi della vita di guarnigione, quali ad esempio i matrimoni degli ufficiali subordinati[13], i comportamenti degli abitanti delle zone e i rapporti con le imprese e i casi di spionaggio.
Il 15 novembre il Comando della divisione militare di Padova richiese alcune informazioni riguardo alla futura moglie del tenente Tuzzi, capo sezione d’artiglieria di Primolano[14]. In merito al matrimonio degli ufficiali, il 31 luglio era stata emanata una circolare nella quale si ribadiva che “le autorità militari in ogni caso siano quanto mai scrupolose nell’accertare della perfetta moralità e della conveniente posizione morale della sposa, e con ogni cura indaghino nei riguardi dei membri della sua famiglia di origine; né meno scrupolosi e rigidi, per la gelosa tutela del decoro dell’esercito, siano nel fornire il parere che dovrà servire di base alle ulteriori decisioni del Ministero per la concessione del R. Assentimento”[15].
La risposta da parte del maggiore arrivò il 18 dicembre. Le informazioni raccolte sulla signorina Taverna sia per la sua vita familiare che per la sua condotta morale; nella sua famiglia esistevano dei casi di alcolismo, una reputazione non buona ed anche un caso di uxoricidio, tutte caratteristiche che non erano favorevoli al matrimonio con l’ufficiale Tuzzi[16].
Un caso spinoso che il maggiore Dal Fabbro dovette affrontare fu quello dello spionaggio e della fuga di notizie sui lavori di costruzione del forte Lisser.
Il 23 settembre 1911, il Comando della divisione di Padova inviò all’ufficiale una lettera nella quale di sosteneva che nella Domenica del Corriere del settembre 1911 era stato pubblicato un articolo e delle fotografie dei lavori del forte Lisser che si stavano compiendo. L’ordine impartito era quello di appurare le circostanze in cui le fotografie erano state scattate e il motivo della negligenza del personale di sorveglianza per la pubblicazione del materiale riservato[17].
La risposta arrivò il 30 settembre, il maggiore Dal Fabbro non fu in grado di fornire delle notizie esatte sull’autore dell’articolo e delle fotografie; ma era a conoscenza che alcuni ufficiali del 3 gruppo del 9 reggimento artiglieria da fortezza durante le operazioni di traino dei cannoni da 149 mm avevano scattato delle fotografie, l’ufficiale addossava la colpa della fuga di notizie e di immagini ai carabinieri, i quali “sapevano benissimo che era proibito ai borghesi di prendere fotografie del traino e dei materiali di artiglieria, fotografie prese dagli stessi ufficiali addetti al traino, i carabinieri non avevano creduto di poter proibirlo”[18].
L’ufficiale del genio proponeva di proibire agli ufficiali impegnati nei lavori per le opere permanenti l’utilizzo delle macchine fotografiche, mentre sottolineava che nel caso in questione, c’èra da prendere in considerazione il fatto che i cannoni del forte Lisser erano giunti tramite ferrovia fino alla stazione di Primolano, “sotto gli occhi degli agenti della nazione alleata, i quali non avranno certamente mancato di prendere nota e di informarne chi di ragione. Inoltre detto materiale, compresi i proiettili, fu trasportato sul Lisser senza che vi sia stata presa alcuna precauzione per tener nascoste, od almeno riservate, nel limite del possibile le operazioni di traino”[19].
Secondo l’opinione di Dal Fabbro, “se gli ufficiali fossero stati esatti della necessità di tener celato più che era possibile l’importanza e la natura delle operazioni che essi stavano compiendo probabilmente non sarebbero state fatte fotografie sul traino di queste, con le notizie relative all’armamento di M. Lisser, sarebbero state pubblicate sulla Domenica del Corriere”[20].
Il 2 ottobre, si venne a conoscenza di ulteriori informazioni in merito a ciò: l’autore delle fotografie e dell’articolo non era un ufficiale come si era pensato, ma un civile, valeva a dire l’addetto tecnico alla costruzione della strada comunale sig. Ciorgini; il brigadiere dei carabinieri, interrogato dal capitano del genio Cesare Tiraboschi, rispose di non aver dato peso alla questione anche perché il civile era considerato un patriota[21].
La segretezza delle notizie non era molto forte in quei luoghi, tanto che l’impresa Toffanin che aveva costruito alcune opere fortificate in Cadore, era venuta a conoscenza di notizie in merito ai lavori di costruzione delle opere del Lisser e di Coldarco, informazioni che erano considerate riservate.
Un episodio di sentimento antinazionale e spionaggio fu quello del parroco di Enego. Nel settembre del 1911 il Comando della divisione inviò a Dal Fabbro una lettera nella quale si ordinava di sorvegliare il parroco del paese montano, perché “dimostra con suo contegno e coi suoi discorsi sentimenti avversi all’Esercito e al paese, è necessario – data l’importanza della zona nella quale egli risiede – che sia attentamente sorvegliato, anche più specialmente per le eventuali relazioni che egli avesse con persone straniere”[22].
Le informazioni raccolte dal comandante del presidio erano molto chiare: secondo le testimonianza del comandante dei carabinieri della stazione di Enego, il sacerdote aveva con atteggiamento visibilmente ostile verso lo stato italiano tanto che si parlava di rapporti con persone straniere per comunicare loro informazioni sullo stato dei lavori al forte Lisser; la maggior parte della popolazione del paese montano non era d’accordo con le posizioni ostili prese dal prelato.
Per fare un esempio del comportamento del parroco, Dal Fabbro citava il caso della costruzione della strada Enego – M. Lisser e della caserma, il sacerdote secondo le parole dell’ufficiale “non voleva saperne assolutamente di soldati italiani e operai perché non venga costruita una caserma”[23]; in conclusione il maggiore sosteneva che “l’ostilità del parroco di Enego è quindi assai dannosa moralmente e materialmente non solo, ma i suoi noti sentimenti anti italiani, tendono a dare un serio valore alla voci che lo additano come spia. Ritengo perciò che una rigorosa e severa inchiesta condotta da qualche abile ufficiale dei carabinieri sarebbe in questo momento assai opportuna nel senso che si potrebbe prendere occasione del rapporto del Comando del 3 gruppo d’artiglieria da fortezza per farla eseguire”[24].
Il Comando della divisione militare, teneva conto dell’attenta relazione sopraccitata, ordinava al Comando del presidio “di disporre presso gli organi dipendenti per una velata e attenta sorveglianza”[25]. In ottemperanza a questa circolare il maggiore Dal Fabbro raccomandava che i capi squadra ed il personale dell’ufficio del Genio di Enego non avessero nessun rapporto con il parroco, in caso contrario dovevano venir licenziati seduta stante per fare in modo che non ci fosse una fuga di notizie.
Così terminava questa singolare vicenda paesana che era stata al centro dell’attenzione delle autorità militari, e dal carteggio analizzato si può notare che aveva destato molto più clamore rispetto alla pubblicazione dell’articolo sulla Domenica del Corriere.
In quegli anni, oltre a questi singolari episodi di spionaggio militare, i lavori per la costruzione dei forti Cima di Campo e Cima di Lan e Lisser continuarono, visto che i tempi previsti per finire i lavori erano molto ristretti. Nel 1910, lo sbarramento Brenta – Cismon era oramai prossimo al suo assetto definitivo: mancava ancora l’inizio dei lavori di costruzione di forte Lisser e della batteria in caverna di Coldarco. Il cantiere di forte Lisser venne aperto tra il 1911 e il 1912 e il cantiere di Coldarco venne aperto nel 1912. Queste due opere fortificate avevano lo scopo di controllare le provenienze dall’altipiano dei Sette Comuni e la stretta di Primolano. Nel novembre del 1914, anche le nuove opere della fortezza Brenta – Cismon (Cima Campo, Cima Lan, Lisser e Coldarco) erano praticamente tutte completate e lo sbarramento aveva assunto una condizione di piena efficienza. La sua guarnigione in tempo di pace era comunque estremamente ridotta; comprendeva soltanto l’8 compagnia del 7 reggimento artiglieria da fortezza.
Le fortificazioni del settore vennero classificate in 3 raggruppamenti in relazione alla loro collocazione ed ai compiti conseguentemente attribuiti distinguendo:
a) opere di prima linea, il cui campo di tiro doveva garantire la copertura dell’intera area dello
sbarramento, con attenzione particolare alle vie di possibile invasione, nonché permettere di
bersagliare obiettivi posti oltre frontiera; appartenevano a questa categoria le opere Lisser,
Coldarco, Cima Campo e Cima Lan;
b) opere di interdizione delle rotabili principali: Tagliata
c) Tombion, Tagliata della Scala, Tagliata delle Fontanelle e Tagliata Covolo di S. Antonio;
d) opere di seconda linea, destinate ad integrare l’opera dei forti di prima linea ed a fornire un
appoggio in caso di ritirata: batterie occasionali di San Vito e batterie di Col del Gallo[26].
Allo scoppio della guerra con l’Austria – Ungheria, la zona dello sbarramento Brenta – Cismon, faceva parte della 1 armata comandata dal generale Roberto Brusati[27], del 5 corpo d’armata del generale Fiorenzo Aliprindi e della 15 divisione del generale Lechantin. A disposizione della divisione c’erano le seguenti truppe: brigata Venezia (83 e 84 reggimento), brigata Abruzzi (57 e 58 reggimento), dal 4 reggimento bersaglieri, dal XLI battaglione autonomo bersaglieri, dai battaglioni alpini Feltre e Val Cismon, dal 2 reggimento bersaglieri, da cinque batterie del 19 reggimento artiglieria da campagna, dalle tre batterie di artiglieria da montagna (4 - 5 - 6) del gruppo Torino – Aosta (II gruppo del 1 reggimento), dalla 1 batteria del gruppo Torino – Susa (I gruppo del 1 reggimento di artiglieria da montagna) e dalla 1 compagnia zappatori del 2 reggimento Genio.
Erano inoltre a disposizione della divisione, per l’occupazione avanzata, i reparti della Guardia di Finanza e le guardie forestali (queste ultime avrebbero dovuto essere utilizzate soprattutto come guide), già di stanza nella corrispondente zona di frontiera. Oltre a questa non indifferente massa di truppe si aggiungevano i reparti destinati al presidio delle fortificazioni dello sbarramento Brenta – Cismon e delle postazioni fisse o occasionali di artiglieria. Le truppe assegnate al Comando dello sbarramento Brenta – Cismon erano costituite dal 5 battaglione presidiario (su 3 compagnie, 7, 8 e 9) del 6 gruppo del 9 reggimento artiglieria da fortezza (su due compagnie di Milizia Mobile, 14 e 16) e dalla 18 compagnia di Milizia Mobile del 4 reggimento artiglieria da fortezza.
5. Lo scoppio della 1 guerra mondiale e gli avvenimenti militari nella Valsugana
Il 23 maggio 1915, venne proclamato lo stato di resistenza della fortezza Brenta – Cismon che cioè da quel momento avrebbe dovuto garantire piena operatività bellica. Le opere permanenti Lisser, Coldarco, Cima di Campo e Cima di Lan, Covolo di S. Antonio, Tagliata della Fontanella, Tagliata della Scala e Tombion erano pronte ad aprire il fuoco; oltre ad esse erano pronte all’azione le batterie occasionali di Col della Spina (4 cannoni da 75 A), San Vito (4 da 75 A), Cima Lan (4 da 75 A), Col di Gnela (4 da 75 A), Col dei Barchi (4 da 75 A), Col Celado (4 obici da 149 G) e Col Mangà (4 obici da 149 G).
Secondo le disposizioni emanate dal Comando della 1 armata il 30 aprile, riguardanti le direttive per il periodo della mobilitazione e radunata alla frontiera nord – est, nella regione Brenta – Cismon – Mis, dato l’andamento del terreno “si consigliava l’occupazione immediata, all’inizio delle ostilità, della linea Costa Alta – Val d’Atenne, in corrispondenza della regione Marcesina – Lisser; della linea Col Balestrina – M. Pasolin – M. Picosta – M. Agaro – Remitte – Totoga – Viderne, in corrispondenza della testata Senaiga ed a cavallo del Cismon; infine l’occupazione di passo Cereda (Sasso della Padella e Dolaibol – Rocchetta) in testa della valle del Mis”[28].
Il giorno 24 maggio, all’una di notte, il Comando della 15 divisione, emanò da Feltre, sede del Comando della divisione, l’ordine di operazione n. 1 avente come oggetto “Attacco ed occupazione di Costa Alta – Col dei Meneghini; Col Balestrina; Passo Cereda”. Tra le varie disposizioni, alcune erano specificatamente riservate al Comando della fortezza Brenta – Cismon “rimarrà un battaglione del 58 battaglione a Cima Campo ed un battaglione dell’84 (3 compagnie) a Croce d’Aune. L’83 reggimento fanteria si trasferirà in mattinata per le ore 8 con Comando e 2 battaglioni tra Cismon e a la Tagliata del Tombion; un battaglione a ridosso della batteria Fontanelle. Il comandante della fortezza disponga che le opere permanenti e le batterie occasionali siano pronte ad appoggiare, ognuna nel proprio raggio d’azione, l’avanzata delle truppe operanti, di propria iniziativa, secondo le osservazioni che direttamente potranno fare e secondo le richieste dei comandanti di sottosettore. L’intero presidio della fortezza sarà sotto le armi ed al proprio posto di combattimento”[29].
Nel corso della notte e della mattinata del 24 maggio, le truppe dislocate in Valsugana, in particolar modo il 1 battaglione del 58 reggimento di fanteria, si mossero dall’avamposto dietro il forte Cima di Campo per occupare la posizione oltre confine di Col Balestrina (o Col della Cicogna) venendo subito rimpiazzate dal 2º battaglione salito da Arsiè. Le truppe italiane procedettero senza trovare nessun ostacolo lungo i dolci e boscosi crinali e per le 4.15 l’obiettivo era conseguito, senza che i 6 pezzi da 149 mm del forte Cima di Campo avessero sparato un solo colpo; sostiene Girotto “cadeva così in mano italiana il rilievo che avrebbe potuto rappresentare una minaccia letale per forte Leone se su di esso si fossero concretizzati i progetti asburgici del primo decennio del’900 con la edificazione della prevista opera corazzata e dell’annessa batteria di mortai da 210 mm”[30].
Nella stessa mattinata, i reparti bersaglieri del sottosettore Lisser – Brenta, agli ordini del generale Amari, avanzarono sull’altipiano in zona Barricata con due battaglioni, fino ad occupare il margine tattico della posizione sul Brenta: il 41 battaglione autonomo si schierò su Col Meneghini e Colle Val d’Atenne, mentre il 37 battaglione bersaglieri occupò la linea Castello di San Marco – Barricata – Costa Alta. Anche quella zona dell’altipiano dei Sette Comuni cadeva senza colpo ferire in mano italiana. Durante lo svolgimento di quest’azione offensiva le opere di Lisser e di Coldarco, pur essendo pronte al fuoco, non entrarono in azione perché da parte austriaca non vi fu nessun movimento.
Nei giorni successivi, le truppe della 15 divisione arrivarono ad occupare delle posizioni sul ciglio settentrionale dell’altipiano dei Sette Comuni da monte Aveati a Cima Mandriolo ed il controllo della stretta di Ospedaletto, di monte Lefre e dell’intera conca del Tesino garantivano in pratica la neutralizzazione dell’intera bassa Valsugana austriaca, senza doverla materialmente occupare e permettendo un considerevole risparmio di forze alle truppe della 15 divisione. Con questo balzo in avanti, i forti del settore Brenta – Cismon erano oramai troppo lontani dalla prime linee per poter assolvere i loro compiti, il solo che dopo l’avanzata del 5 giugno mantenne ancora qualche possibilità d’intervento era il forte Cima di Campo, che coprendo l’intero altipiano del Celado ed ampliando la sua azione a monte Agaro, al Tesino ed alla stretta di Ospedaletto.
Il giudizio del generale Dal Fabbro, in merito ai primi giorni di guerra nel settore Brenta – Cismon era: “nella notte dal 23 al 24 maggio 1915 le nostre truppe sconfinarono e si impadronirono senza trovar resistenza alcuna, delle posizioni pericolose sopra indicate. In tal modo fino dal I giorno di mobilitazione le opere permanenti dello sbarramento di val Brenta e Cismon venivano lasciate indietro e le nostre truppe avanzarono fino a sistemarsi su posizioni forti dalle quali potevano senza troppe difficoltà difendere e proteggere il territorio conquistato; accorciando nello stesso la fronte. Ciò rientrava nei compiti che erano stati assegnati dal Comando Supremo della 1 armata. Con l’avanzata delle truppe, nel tratto di frontiera compresa fra la Croda Grande (val Cismon) e M. Croce di Comelico col primo balzo in avanti compiuto dalle nostre truppe per assolvere il compito ad esse affidato dal Comando Supremo, si veniva in possesso di posizioni che se occupate dal nemico avrebbero ostacolato seriamente la nostra avanzata mentre avrebbero facilitato azioni offensive contro i nostri sbarramenti”[31].
In questa situazione, dove le fortificazioni non avevano più nessun compito difensivo, data la carenza di cannoni che esisteva nell’esercito italiano e nel caso specifico della Valsugana, della 15 divisione, il comandante della divisione, il generale Lechantin decise di iniziare a spostare uomini e materiali dai territori dello sbarramento per utilizzarli nelle prime linee a supporto delle truppe della 15 divisione. A causa della mancanza di artiglierie iniziò il processo di disarmo delle fortificazioni del settore Brenta – Cismon. Secondo gli intendimenti dei comandi militari della zona, si dovevano rafforzare le prime linee utilizzando i materiali e gli uomini dei forti, rinunciando alla funzione d’appoggio che avrebbero potuto fornire le opere permanenti; in poche parole si scelse il male minore.
Un’altra considerazione che venne a consigliare il disarmo dei forti, non solo del Brenta – Cismon ma dell’intero sistema difensivo italiano, fu tragedia del 12 giugno successa al forte Verena nell’altipiano di Asiago, dove un colpo austriaco da 305 mm provocò la morte di 3 ufficiali e oltre 40 militari[32].
Ai primi di luglio, il Comando della 1 armata emanò, in seguito al disastro del Verena, degli ordini riguardanti il disarmo dei forti italiani nel territorio di competenza dell’armata; tali ordini come sottolinea Girotto, “giunsero come manna dal cielo al Comando della 15 divisione, per la quale la carenza di bocche da fuoco campali era un problema oramai assillante e in prospettiva d’aggravarsi con l’imprevisto allungamento delle linee tra la Valsugana ed il Primiero”[33]. Il 15 luglio, il Comando dello sbarramento venne posto alle dipendenze della 15 divisione. Questa decisione in poche parole segnava la fine dello sbarramento Brenta – Cismon, perché oramai tutte le decisioni venivano prese dal comandante della divisione.
Il 31 luglio, giunse ad Arsiè l’ordine di iniziare il disarmo delle opere di Cima Campo e Cima di Lan; solamente il 20 agosto iniziarono effettivamente le operazioni per il disarmo dei forti. Nei mesi di settembre e ottobre, alcuni pezzi d’artiglieria vennero installati all’esterno dei forti. Nel periodo maggio 1915 fino al maggio dell’anno successivo, secondo l’autorevole opinione del generale Dal Fabbro, le fortificazioni italiane servirono:
1 - a proteggere le operazioni di mobilitazione ed a coprire la radunata dell’esercito;
2 - a costituire i punti di partenza e di appoggio per l’occupazione della linea del confine e di posizioni situate al di là del confine stesso dalle quali si poteva più efficacemente e con minor impiego di forze assolvere i compiti assegnati all’armata. Dette funzioni, essendo stata la nostra avanzata improvvisa e contemporanea alla dichiarazione di guerra, vennero ben assolte dagli sbarramenti”[34].
6. L’offensiva austriaca del maggio – giugno 1916
Nel periodo dell’offensiva austriaca del 1916, le fortificazioni del Brenta – Cismon, (all’infuori che il forte Lisser che secondo le testimonianze di Alfredo Graziani e Emilio Lussu, entrambi ufficiali della brigata Sassari, sparò in direzione della zona delle Melette. È ancora da appurare se i cannoni erano ancora all’interno delle cupole corazzate o all’esterno dell’opera) non spararono, dato che oramai erano prive di cannoni e delle munizioni necessarie per aprire il fuoco. Dopo che l’offensiva austriaca terminò, nei mesi successivi continuò la vita di routine delle opere del settore Brenta – Cismon fino a quando, quasi un fulmine a ciel sereno, il 23 novembre 1916, giunse ad Arsiè una comunicazione da parte del Comando dell’armata, che determinò la vera e propria fine dello sbarramento Brenta – Cismon. Il comunicato diceva “Con effetto immediato, si dispone la radiazione della Fortezza Brenta – Cismon. Con la medesima decorrenza viene istituita il “Presidio Tagliata della Scala”[35].
Come sostiene giustamente Girotto: “Finiva così la storia ufficiale della Fortezza Brenta – Cismon ma non la sua effettiva vicenda bellica". Per le imponenti strutture in pietra e calcestruzzo l’oblio sarebbe durato solamente un anno prima che nuovi e ben più drammatici avvenimenti ripresentassero in forma attuale la minaccia per fronteggiare la quale le opere erano state edificate nei decenni precedenti”[36].
Al momento dell’offensiva, seguendo le parole di Dal Fabbro, le opere permanenti nel tratto di fronte in questione erano le seguenti:
a) tutte le opere erano state disarmate per impiegare i materiali di artiglieria a protezione
delle nuove linee di difesa;
b) le opere di Campolongo, M. Verena e Punta Corbin avevano l’armamento di medio calibro
installato fuori dalle opere e proseguivano il loro tiro contro i forti di Luserna;
Nei giorni che precedettero detta offensiva, che fu iniziata il 16 maggio 1916, in seguito ad una visita di S.E. Cadorna, furono ritirate le artiglierie di medio calibro che erano state portate troppo avanti e si mise mano a rendere più robuste le linee di resistenza. In Valsugana le nostre truppe si ritirarono sulla sponda sinistra del torrente Maso, appoggiandosi ai massicci di Cimon di Rava e di Cima d’Asta. Il nemico il 24 giugno iniziò la ritirata e si stabilizzò sulla nuova linea di Val d’Assa. L’opera di M. Lisser, che erano disarmata, fu colpita da due proiettili da 305. Uno cadde sopra uno dei pilastri d’ingresso del cortile dell’opera: lo frantumò e grosse schegge colpirono la facciata in pietra del ricovero interno, asportando dei tratti di stipiti. Un altro proiettile cadde all’estrema sinistra del corridoio di batteria, s’incastrò nella volta di calcestruzzo dello spessore di 2 m sparse l’ogiva dall’intradosso della volta e non scoppiò. Nei pressi dell’opera erano piazzate delle batterie da 102 che sparavano per far credere al nemico che l’opera fosse armata. dopo qualche giorno il nemico si ritirò ed anche l’opera di M. Lisser rimase fuori tiro delle artiglierie nemiche.
Riassumendo si può ritenere che ben poca o nessuna influenza abbiano avuto le opere permanenti degli sbarramenti esistenti fra il Garda e Croda Grande nell’andamento delle operazioni del Maggio – Giugno 1916 sulla fronte del Trentino”[37].
7. La disfatta di Caporetto e la ritirata della 4 armata
A seguito della disfatta di Caporetto, la 1 armata non aveva risentito dello sfondamento nel fronte giulio. Solo il 27 ottobre con la caduta di Monte Maggiore e la conseguente decisione del generale Cadorna di far ripiegare l’intero schieramento; il comandante della 1 armata, il generale Guglielmo Pecori Giraldi[38] rendeva noto ai comandi dipendenti le direttive emanate dal Comando supremo, dove il compito della grande unità doveva essere quello di “costituire una barriera insormontabile per il nemico ed impedirgli ad ogni costo di sboccare in piano”[39].
Prima del ripiegamento la zona di competenza del 18 corpo d’armata, comandato dal generale Adolfo Tettoni, che faceva parte della 4 armata, era composta dalle divisioni:
51 divisione (generale Tamagno): in Valsugana, fra le pendici settentrionali di cima Caldiera e Strigno;
15 divisione (generale Quaglia): da Strigno a cima d’Asta, passando per le vette di Rava;
56 divisione (generale Pittalunga): di fronte alle posizioni austriache del Lagorai, da passo Cinque Croci a cima Valcigolera passando per la regione dei Colli e Cauriol, Cardinal e Busa Alta.
Dopo aver alleggerito le prime linee, a partire dal 5 novembre le divisioni si mossero lentamente dalla destra dello schieramento; la 56 divisione ripiegò verso Cismon, la 15 e la 51 per la val Brenta, lasciandosi alle spalle dei reparti di copertura, che avevano il compito di assicurare il ripiegamento del grosso delle truppe italiane. Il 1 novembre il grosso della 15 divisione era a sud del massiccio del Grappa, quello della 51 allo sbocco della val Brenta, quello della 56 divisione nella zona di Fonzaso[40].
Il 9 novembre nel pieno della fase di ripiegamento, il Comando supremo emanò un fonogramma al comando della 1 e della 4 armata in merito al settore Brenta – Cismon, dove veniva consigliato che per la saldatura di alcune posizioni tenute dal 18 e 20 corpo d’armata si doveva ottenere attraverso la regione Cima Campo – Cima di Lan[41]. Per tale motivo a partire dal 10 novembre per disposizione del comando generale delle truppe di copertura della divisioni 56, 15 e 51; esse andarono a formare il gruppo denominato “colonna Piva” che aveva tre compiti fondamentali:
1) permettere agli elementi del 18 corpo già rientrati nelle linee di avviarsi da sud allo
schieramento previsto sul massiccio del Grappa;
2) permettere ad altre forze del medesimo corpo d’armata di occupare gli speroni avanzati di
Monte Roncone e Monte Tomatico secondo nuove disposizioni del Comando Supremo;
3) permettere alla colonna degli ultimi 20.000 ritardatari (del 1, 9 e 12 corpo d’armata) adunati
a Belluno di entrare nella valle del Brenta sfuggendo alla minaccia d’accerchiamento[42].
Il gruppo di copertura era composto:
- dal distaccamento del colonnello Streva, comandante del 6 reggimento della brigata Aosta, che con due battaglioni del 6 reggimento fanteria, il battaglione Monrosa in rincalzo, con due batterie da campagna ed una da montagna, teneva lo sbarramento di Tezze da Pizzo di val d’Atenne a Cima Campo esclusa;
- dal distaccamento del tenente colonnello Sirolli (battaglioni alpini Monte Pavone e val Brenta, 1 batteria da montagna) che occupava la linea Cima Campo – Cima di Lan;
- dal distaccamento del tenente colonnello Dalla Bona (battaglione Cividale, 153 compagnia del monte Arvenis, 278 del val Tagliamento e una compagnia mitragliatrici) schierato sui caposaldi della linea ponte della Serra – Col Faller – Col Falcon – Croce d’Aune.
Nella zona tra il forte Cima di Campo e Cima di Lan, erano dislocati il battaglione alpini monte Pavone e il battaglione val Brenta.
Le forze austriache, dal canto loro, cercavano di sfruttare al meglio le facili vittorie conseguite sul fronte isontino e già il 27 ottobre, quando ancora non si poteva capire l’entità dello sfondamento di Caporetto, il feldmaresciallo Conrad, comandante del gruppo armate del Tirolo, aveva deciso di dare il colpo di grazia all’Italia tramite un’offensiva che partendo dal Trentino si sarebbe sviluppata sull’altipiano di Asiago e in Valsugana, forzando il gruppo montano di Cimon di Rava per poi oltrepassarlo e scendere nella conca del Tesino e nella piana di Fonzaso; in questo modo si sarebbe tagliata al nemico la ritirata dalla val Cismon e dalla valle del Vanoi.
8. La battaglia di Cima Campo e l’occupazione austriaca dei forti del Brenta - Cismon
A seguito del non previsto arretramento italiano tra la Valsugana e il passo Rolle, vennero emanate dai comandi austriaci delle disposizioni per l’inseguimento delle truppe avversarie. In quel territorio era di stanza la 18 divisione, schierata tra Monte Civeron e Valpiana con il compito di tallonare le truppe contrapposte. La divisione era divisa in 2 colonne: la principale (1 brigata da montagna) da Castel Tesino su Arsiè, la secondaria (reparti della 185 brigata) lungo la Valsugana[43].
Gli scontri tra le due fazioni si ebbero sulla catena del Lagorai, tra Valpiana e passo Rolle dove erano schierate la 13 e la 9 brigata da montagna; la prima doveva occupare Cima d’Asta, il passo Broccon e la valle del Vanoi, mentre alla seconda toccava l’inseguimento lungo la valle del Cismon. Il 9 novembre, la 9 brigata, che era arrivata tra il passo Broccon e Pontet, fu assegnata alla 18ª divisione per assicurare la condotta unitaria di tutte le forze impegnate in quel settore del fronte della Valsugana.
Per fare in modo che il grosso della colonna italiana che stava ripiegando dal Bellunese non venisse catturata dagli avversari, si doveva opporre una resistenza sui monti. In merito a ciò, il generale Tettoni, inviò al maggiore Olmi, comandante del battaglione M. Pavione, l’ordine di non spostarsi dalle retrostanti posizioni di Col del Gallo (linea azzurra) ma di rimanere ad ogni costo sui rilievi costituenti la linea verde[44].
Il battaglione alpini M. Pavione, che faceva parte del 7 reggimento alpini ed era stato costituito a Feltre il 1 dicembre 1915 con le compagnie 148 e 149, alle quali poi si aggiunse, ceduta dal battaglione Feltre la 95[45]. Il battaglione all’inizio del ripiegamento faceva parte del gruppo Sirolli, dapprima distaccamento di copertura della 15 divisione e successivamente nucleo centrale della colonna Piva. Secondo le disposizioni iniziali del comandante del 18 corpo in merito al ripiegamento, al reparto sarebbe spettato sostituire nella zona di Cimon di Rava le truppe che dovevano ripiegare e anch’esso il giorno successivo avrebbe potuto iniziare il ripiegamento in fasi successive, valeva a dire la sera del 9 novembre raggiungere la cosiddetta linea Gialla (malga Morante – Monte Agaro – Picosta – Celado – Pasolin), la sera del 10 linea Verde (Cima Campo – Col Perer – Cima Lan – ponte della Serra) ed infine il 12, Monte Asolone, Monte Pertica e Solarolo.
Secondo il diario storico del battaglione, già dal 8 novembre il reparto lasciò la posizione di Cimon di Rava per trasferirsi a Col Perer con la 149 compagnia, mentre lo Stato Maggiore del battaglione, la 148 compagnia e le tre sezioni mitragliatrici col plotone esploratori si posizionarono a Cima Campo[46]. Con il precipitare della situazione, in quel momento di ripiegamento delle forze italiane nel settore, l’11 novembre i reparti austriaci, che erano giunti a Lamon, (1 brigata da montagna e la 9 brigata), iniziarono l’avanzata verso i forti Cima di Lan e Cima di Campo; in quella zona era dislocato il battaglione M. Pavione con il Natisone nelle alture che andavano dal precipizio della Valsugana al solco del torrente Cismon; la 149 compagnia (capitano Paviolo) presidiava l’ala destra tra il forte Cima Lan e Col Perer, la 95 (capitano Stufferi) era tra Col Perer e Langian, il plotone esploratori del tenente Arban e gli altri tre plotoni tra il forte Cima Campo e Casere Bettini, inoltre all’interno dell’opera era dislocato il comando del battaglione M. Pavione.
All’ala destra c’era il battaglione Val Brenta, con una batteria da montagna. Esso occupava Cima Lan, spingendosi fino al ponte della Serra (altre due batterie da 64 mm erano l’una appena a sud di Col Perer, l’altra sopra Fastro), mentre a sinistra reparti della brigata Aosta (6 reggimento fanteria) ed il battaglione Monte Rosa tenevano lo sbarramento di Tezze[47]. Nel pomeriggio dell’11 novembre le truppe del 6 reggimento di fanteria resistettero sullo sbarramento di Tezze sottoposto dalla notte precedente ad un intenso tiro di artiglieria. Le posizioni più scoperte vennero gradualmente alleggerite. In quella zona la situazione rapidamente divenne incontrollabile, perché nel pomeriggio dello stesso giorno, l’intera 55 compagnia del Vestone era stata circondata e catturata dall’avversario tra colle val d’Atenne e Costa Alta con la perdita di 255 alpini e 14 ufficiali.
Dopo aver ricevuto degli ordini dal comando di corpo d’armata riguardo ad un eventuale ripiegamento verso Primolano, si cercò di resistere in quella zona dove vennero catturati soldati italiani; riuscì a ritirarsi in extremis una squadra mista di alpini e fanti precipitandosi nei boschi sottostanti sotto la guida del sergente Cenci, il quale diede nel corso della sua deposizione per quei fatti parlò della situazione in cui vide il forte Lisser;
“Verso le dieci di mattina del 12 ci siamo diretti al monte Lisser, ma non ho trovato nessuno del battaglione e la linea telefonica era interrotta. Era pieno di feriti che gridavano e nel piazzale un drappello di carabinieri aveva fucilato tre alpini. Mi sono presentato all’ufficiale che accompagnava il maresciallo dei carabinieri, un capitano di fanteria che dato l’ordine di scendere subito a Enego che tanto il forte non importava, che era disarmato e che se lo prendessero pure che lui non aveva esplosivi e non gli avevano lasciato nemmeno da accendersi una sigaretta”[48].
Sia per il forte Lisser, come del resto le opere di Cima Campo e Cima Lan, avevano già segnato il loro destino dato che erano a tempo disarmate, tanto che anche da una relazione del generale Dal Fabbro del dopoguerra, a proposito del ripiegamento della 4 armata e dell’utilità degli sbarramenti per ritardare l’avanzata nemica, emergeva che “in una di quelle notti della prima decade di novembre 1917 il Comando supremo chiese telefonicamente a chi scrive se le opere di M. Lisser, Cima Campo e Cima Lan fossero in condizioni da venir utilizzate per rallentare l’avanzata nemica. Venne risposto: che dette opere, state disarmate da tempo delle artiglierie, erano in stato di completa disorganizzazione per quanto riflette l’armamento e che si sarebbero potute rimettere in relativa efficienza dislocando per quanto riflette l’armamento in esse delle batterie di artiglieria pesante campale, non ritenendo possibile armare nuovamente dette opere con l’armamento in dotazione delle stesse; che dette opere andavano poi rifornite di viveri e presidiate da truppa di fanteria per la difesa vicina; che tali operazioni avrebbero richiesto qualche giorno di tempo per essere compiute e che in fine l’ostacolo passivo rappresentato alla presenza di dette opere non era tale da ritardare la marcia dell’avversario il quale avrebbe potuto assai facilmente aggirare e sommergere le opere.
Il comando supremo non insistette ed i Comandi delle truppe in ritirata provvidero a far saltare le opere”[49].
Il forte Lisser venne abbandonato senza essere minato, mentre i forti Cima di Lan e Cima di Campo vennero occupati dai reparti austriaci dopo alcuni combattimenti.
Nella notte tra l’11 e il 12, secondo il diario del battaglione M. Pavione, “il nemico irradia in direzione di Col Perer e Col dei Borghi con numerosi pattuglioni d’arditi per attaccare l’opera, ma sono dai nostri nettamente respinti.
All’alba di detto giorno il nemico con forze preponderanti attacca il forte, ma ne viene subito ributtato. Verso le ore 11.30 il nemico con forze maggiori dei precedenti attacchi muove con 4 ondate successive alla presa del forte. Le prime 3 ondate nemiche sono sbaragliate dalla salda e magnifica resistenza opposta da nuclei di Cima Campo. La 4 ondata però data la preponderante superiorità numerica dei nemici non può malgrado l’eroica resistenza dei nostri essere trattenuta dimodochè il nemico può circondare il forte. I nostri all’interno del forte con una resistenza accanita guidati dal magnifico esempio del comandante del battaglione maggiore Olmi resistono malgrado i reiterati attacchi nemici fino alle ore 17.30 del giorno 12”[50].
In realtà l’eroica resistenza di cui parla il diario storico non ci fu perché già a partire dalle ore 17.00 il tenente colonnello Sirolli, comandante del gruppo alpino, aveva telefonato a Cismon e dopo aver elogiato il comportamento del battaglione alpino rendeva noto che tutte le truppe coinvolte nel ripiegamento potevano ritirarsi oltre la confluenza Brenta – Cismon, ma il maggiore Olmi che aveva capito di essere circondato dalle forze avversarie cercò in tutti i modi di rallentare l’avanzata austroungarica resistendo il più possibile[51].
Alle ore 18.00 quando i soldati e gli ufficiali del M. Pavione erano oramai senza speranza di fuga, il maggiore Olmi allo scopo di evitare ulteriori spargimenti di sangue comunicò ad un ufficiale degli Standeschützen del battaglione Meran la resa del forte. Gli austriaci entrati all’interno dell’opera fortificata videro che erano già state predisposte le cariche d’esplosivo e i collegamenti per la demolizione di Cima Campo. Furono catturati secondo le cifre ora in possesso 12 ufficiali e 300 soldati compreso il comandante del battaglione.
L’occupazione del forte Cima di Lan fu meno faticosa e drammatica rispetto al vicino Cima di Campo: prima che le truppe della 9 brigata da montagna occupassero l’opera fortificata ormai abbandonata, gli italiani la fecero saltare in aria. Il forte venne sgomberato verso le ore 16.00 dagli alpini del battaglione Val Brenta sotto la pressione del 3 reggimento Kaiserschützen della 9 brigata che il giorno prima aveva preso Lamon per puntare poi su Arina. Una testimonianza interessante in merito alla conquista di Cima di Lan è quella del Kaiserschützen altoatesino Andrea Vescoli del 3 reggimento, in un suo scritto così parlava dell’azione:
“il 12 novembre siamo partiti che era ancora notte dal paesino della Arina per prendere un forte agli alpini. Si marciava nel bosco e in alto c’èra già la neve e faceva freddissimo perché era più di mille metri. Un paio di camerati si erano sdraiati a riposare, avevamo dormito solo tre ore in due giorni, ma l’ufficiale li ha puntati con la pistola dicendo o ripartire o morire. Si sono messi a piangere ma hanno continuato a camminare con me che li ho dato del rum delle mia borraccia. Tenevo il rum perché acqua ne avevano a sai intorno, bastava la neve. Gli alpini non sparavano tanto, ma non si vedeva bene perché c’èra la nebbia e le ombre sembravano amiche e nemiche insieme. Al nostro caporale il capitano aveva detto che se prendiamo il forte possiamo riposare, che c’èra dentro il ben di Dio, ma non era vero. Vicini alla cima siamo andati all’assalto ma gli alpini non c’è n’erano più. Solo un ferito alla pancia che piangeva e chiamava sua mamma. Lo abbiamo caricato sulla barella – sanità e avviato indietro, ma in quell’attimo il forte è scoppiato in aria con rumore tremendo e sassi piovevano tutti in giro. Siamo entrati dopo ma era una rovina e siamo scesi nella valle sotto. Tutti erano arrabbiati con gli italiani perché ci pareva che avevano voluto rovinarci il forte e il nostro riposo, e allora abbiamo dormito nelle case con i civili terrorizzati”[52].
L’episodio in questione così venne riportato dall’ufficiale comandante il 3 reggimento Kaiserschützen, colonnello Lercher nella relazione della battaglia che iniziò al comando della 9 brigata:
“L’assalto contro Col di Lan fu condotto secondo quanto richiesto dagli ordini. Il nemico oppose strenua resistenza. Quando il reggimento era in procinto di sferrare l’attacco decisivo, l’avversario fece saltare in aria il forte. Alle 4 del pomeriggio la fortificazione era in nostro possesso. Il Col di Lan era difeso dal battaglione Pavione del 7 reggimento alpini. I prigionieri ammisero che il battaglione si raccoglieva a Col del Gallo. Finora il numero dei prigionieri somma a 90 alpini”[53].
Durante gli scontri avvenuti nelle vicinanze del forte Cima di Lan ci furono da parte austriaca 1 ufficiale ferito, 1 alfiere morto ed uno ammalato mentre, tra la truppa, 3 morti, 41 feriti, 25 ammalati e 7 dispersi[54].
Il 9 novembre, la 9 brigata che era arrivata tra il passo Broccon e Pontet fu assegnata alla 18 divisione per assicurare la condotta unitaria di tutte le forze impegnate in quel settore del fronte della Valsugana. Nel contempo, venne fatta brillare la tagliata stradale Covolo di S. Antonio, verso le ore 22 dell’11 novembre per opera del drappello della 7 compagnia minatori affiancata alla 153 compagnia del battaglione M. Arvenis, comandata dal capitano Cardoni.
Il 13 novembre a partire dalle ore 2.00 i distaccamenti dei gruppi Streva e Sirolli si concentrarono progressivamente a Cismon, raggiunti all’alba anche dal battaglione Monrosa. Gli ultimi drappelli di fucilieri del Monrosa incaricati della protezione dei drappelli del Genio si trattennero nella conca di Primolano fin verso le ore 8.00 per attuare il brillamento della tagliata Scala e Fontanella per opera della 114 compagnia zappatori agli ordini del tenente Sburlati, protagonista anche della parziale distruzione del Tombion avvenuta lo stesso giorno.
Gli scontri di Cima Campo e Cima Lan ebbero un certo risalto nella stampa austriaca, tanto che la rivista Linzer Volksblatt scriveva:
“Dal quartier generale austriaco. Feltre e Primolano presi. Di nuovo un forte corazzato conquistato. Vienna 14 novembre. Ufficialmente si comunica: 14 novembre mezzogiorno. Le nostre truppe entrarono in Feltre e Fonzaso. Ai due lati della Valsugana l’armata del generale d’artiglieria Scheuschenstühl ampliò notevolmente i vantaggi raggiunti negli ultimi giorni. Le sue divisioni raggiunsero Primolano espugnarono fra le alte nevi parecchie opere fortificate a mattina di Asiago e un forte corazzato sul monte Lisser”[55].
Nel corso delle 4 giornate di scontri dal 10 al 14 novembre, la colonna Piva secondo le cifre ufficiali aveva avuto come perdite oltre 900 uomini tra i quali 22 ufficiali; la quasi totalità delle perdite circa 905 soldati e 19 ufficiali erano da annoverarsi tra i dispersi, la maggior parte catturati dal nemico, solamente 6 morti e 17 feriti.
9. Conclusioni
La Fortezza Brenta – Cismon, come del resto la maggior parte delle fortificazioni italiane non venne interessata direttamente dalle operazioni belliche dei primi mesi del conflitto, quando prima di tentare delle azioni offensive da parte delle fanterie si svolse la cosiddetta “guerra dei forti”, in poche parole il bombardamento delle opere italiane dell’altipiano di Asiago verso le contrapposte fortificazioni austriache. La vita bellica della Fortezza Brenta – Cismon non fu ricca di episodi di una qualche rilevanza storica, all’infuori che i combattimenti dei primi giorni di novembre 1917, quando oramai i forti disarmati non potevano più assolvere il loro compito difensivo.
Con questi presupposti, si può delineare la sorte che sarebbe toccata ai forti della Valsugana, se pesantemente bombardati dai grossi calibri austriaci, visto che la loro struttura architettonica era uguale ai forti Campolongo e Verena, severamente danneggiati nel giugno 1915. Il sistema difensivo del settore Brenta – Cismon era formato da opere antiquate (come la Tagliata Covolo di S. Antonio, Tombion, Scala e delle Fontanelle) e da torti dell’ultima generazione, modello Rocchi (Cima Campo, Cima Lan e Lisser), tra di loro non omogenee.
Uno dei più eclatanti errori, che vennero commessi nella progettazione e costruzione dei forti italiani, fu che non si tenne conto della corsa agli armamenti a livello europeo fin dalla fine dell’800 ed in particolar modo negli Imperi Centrali. Lo sviluppo delle artiglierie ebbe una accelerazione data la presenza di industrie belliche come la Krupp e la Skoda, che nel giro di un decennio svilupparono dei cannoni che data la loro potenza distrussero i forti italiani, la cui copertura poteva resistere ai medi calibri quali il 152 mm, mentre nulla potevano con gli obici da 305, 381 e 420 mm. Già prima dello scoppio della guerra in Italia, alcuni ufficiali erano a conoscenza dei gravi limiti dei forti italiani, tanto che il generale Dal Fabbro sosteneva in merito che “le opere corazzate erano state previste per resistere alle artiglierie di medio calibro. Le corazze avevano spessore di 140 mm ed erano di acciaio al nichelio. Le avancorazze erano di ghisa indurita. Gli spessori delle masse coprenti di calcestruzzo erano di 2.00 m. in corrispondenza dell’asse delle riservette dei locali munizioni e del corridoio di batteria. le polveriere erano in caverna, ed il servizio munizioni disimpegnato mediante carrelli ed elevatori. Nessuna di dette opere aveva spessori di masse coprenti sia corazzature che calcestruzzo tali da poter resistere alle artiglierie nemiche di grosso calibro. Perciò fino dal principio della guerra, anzi da quando durante la neutralità giunsero le notizie relative agli effetti prodottiti dal 420 e dal 305, si comprese che poco assegnamento si poteva fare sulla resistenza di tali opere qualora il nemico fosse riuscito ad impiegare contro le nostre opere le ora dette bocche da fuoco di grosso calibro. Gli effetti già accennati, prodotti da due proiettili da 305 contro l’opera di M. Lisser mostrarono come, rettificato il tiro di tali bocche da fuoco, pochi colpi sarebbero stati sufficienti per smantellare anche le nostre opere corazzate. Il tiro delle bocche da fuoco di grosso calibro non era altra difesa possibile all’infuori di quella data dall’occultamento, dal mascheramento e, dove possibile, dalla sistemazione delle batterie in caverna”[56].
I vantaggi dei forti modello Rocchi riguardavano in primo luogo le dimensioni molto ridotte dell’opera, che ne facevano un bersaglio poco visibile, quindi molto difficile da colpire.
Leithner, tenente colonnello dello Stato Maggiore del Genio austro-ungarico, autore di un libro di fortificazione permanente, tradotto in italiano dall’allora maggiore del Genio Rocchi, sosteneva come opportuna la disposizione semplice e chiara delle singole parti e specialmente il collocamento degli affusti corazzati in linea retta, uguale alla posizione normale di fuoco di una batteria ordinaria[57].
Questa osservazione dell’autore, alla luce dell’esperienza della guerra, era errata perché uno dei limiti dei forti italiani e, se vogliamo dire, uno dei punti vulnerabili fu proprio la disposizione rettilinea delle cupole corazzate; un esempio si ebbe nel disastro del forte Verena nel giugno del 1915, dove a causa dello scoppio di una granata da 305, l’intera batteria venne messa fuori combattimento. Analizzando i difetti di questo progetto costruttivo, innanzitutto si nota: il profilo del fossato di gola che, con un rivestimento di scarpa insufficientemente protetto e con la controscarpa non protetto era singolare, perché il sistema allora utilizzato negli altri paesi europei ne era il contrario. La chiusura della gola per mezzo di una lamiera di ferro non poteva resistere all’effetto delle granate perché troppo debole. Per la difesa ravvicinata non veniva più utilizzato l’armamento su affusto corazzato perché non era sicuro. Calcolando il costo approssimativo dell’opera in esame risultava che: “l’ammontare delle opere di terra, di muratura e di metallo risultava di poco inferiore a £. 400.000, alla quale somma bisogna aggiungere l’importo dell’armamento mobile e le spese di espropriazione (un milione di lire, all’incirca, in totale)”[58].
La fortuna delle fortificazioni del settore in esame, fu che con l’avanzata delle truppe italiane della 15 divisione oltre il confine di stato nei primi giorni di guerra non ci fu il pericolo che i forti potessero venir bombardati dai grossi calibri austriaci; sorte ben peggiore toccò in particolar modo al forte Verena, dove morirono oltre 40 militari tra ufficiali, sottoufficiali e militari.
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L’autore ringrazia per la preziosa collaborazione il prof. Dal Fabbro e l’amico Luca Girotto.
[1] Archivio Dal Fabbro (A.D.F.), relazione del Comitato delle armi di Artiglieria e Genio riguardante i progetti particolareggiati riguardanti le costruzioni di due caserme difensive sulle posizioni di Cima Campo e Cima Lan sulle valli Brenta Cismon, Roma, 20 maggio 1884.
[2] Giovanni Ivanoff (1851 – 1917), nato a Trieste da una famiglia proveniente da Cracovia ma originaria della Russia, figlio addirittura di un ufficiale che aveva combattuto a Lissa contro gli italiani, laureatosi in ingegneria a Vienna ed occupato presso il Municipio della città giuliana come ingegnere civile, simpatizzò ben presto con gli studenti italiani tanto da fuggire in Italia nel 1882, insieme con altri patrioti come Francesco Marsich, Ettore della Conca e Guglielmo Oberdan. Come fuoriuscito ottenne un posto di ingegnere civile, ma data la sua competenza in materia di costruzioni militari; fu posto al servizio del genio militare: fu così lui a progettare tra l’82 e l’86 la Tagliata della Scala e a dirigerne i lavori fino al 1895 e a seguire le fortificazioni presso Tai e Pieve di Cadore, nonché gli importanti lavori sulle strade della Cavalleria e di Alemagna. Dal 1895 al 1910 egli attese poi ai lavori dei forti di Cima di Campo e Cima di Lan e fu incaricato anche di importanti costruzioni civili nell’Adriese e nella zona di Fadalto. Morì nel 1917 ad Arsiè dove si era stabilito fin dall’inizio e dove aveva sposato Emma Fusinato, della nota ed illustre famiglia del poeta Arnaldo e di tante altre personalità.
[3] L. Girotto, 1866 – 1918, Soldati e fortezze da Asiago al Grappa, Rossato, Novale – Valdagno, 2002, p. 82.
[4] A.D.F., diario di costruzione del forte di Cima Campo, s.l., s.d.
[5] A. Guidetti, La fortificazione permanente, Bertinatti, Torino, 1913, p. 46.
[6] Ivi, p. 47.
[7] L. Malatesta, Gli studi del generale Enrico Rocchi e il suo modello costruttivo, in Castellum, n. 44, Roma, 2002, pp. 29 – 38.
[8] E. Rocchi, La forticazione in montagna, Edizioni Voghera, Roma, 1898.
[9] E. Leithner, La fortificazione permanente e la guerra di fortezza, a cura di E. Rocchi, Edizioni Voghera, Roma, 1897, pp. 106-107.
[10] Archivio Dal Fabbro (A.D.F.), diario di costruzione del forte Cima di Campo, s.l., s.d..
[11] Ivi, giorni 5,12 settembre 1906.
[12] F. Nanfara, Arsie Briciole storiche, Tipografia D.B.S., Seren del Grappa, 1994, p. 288.
[13] F. Minniti, Primi orientamenti sulla dislocazione delle scelte matrimoniali degli ufficiali dell’esercito (1861 – 1906), in Esercito e Città dall’unità agli anni trenta. Atti del convegno nazionale di Spoleto, 11 – 14 maggio 1988, a cura di G. Antonelli, Roma, 1989, pp. 297 – 319.
[14] A.D.F., lettera del Comando della divisione militare di Padova al maggiore Dal Fabbro, Padova, 15 novembre 1911.
[15] A.D.F., circolare del Ministero della guerra riguardante il matrimonio degli ufficiali, Roma, 31 luglio 1911.
[16] A.D.F., lettera del maggiore Dal Fabbro al Comando della divisione militare, Cima Campo, 18 dicembre 1911.
[17] A.D.F., lettera del Comando della divisione militare di Padova al maggiore Dal Fabbro, 29 settembre 1911.
[18] A.D.F., lettera del maggiore Dal Fabbro al Comando della divisione militare di Padova, Cima Campo, 30 settembre 1911.
[19] Ibidem.
[20] Ibidem.
[21] A.D.F., promemoria del capitano Tiraboschi al maggiore Dal Fabbro, Enego, 2 ottobre 1911.
[22] A.D.F., lettera del Comando della divisione militare di Padova al maggiore Dal Fabbro, Padova, s.d.
[23] A.D.F., lettera del maggiore Dal Fabbro al Comando della divisione militare di Padova, Cima Campo, 14 settembre 1911.
[24] Ibidem.
[25] A.D.F., circolare del Comando della divisione militare di Padova, 19 ottobre 1911.
[26] L. Girotto, 1866 – 1918, cit., p. 154.
[27] L. Malatesta, Il generale Roberto Brusati nella grande guerra, in Rassegna Storica del Risorgimento, n. 1, Roma, 2003, pp. 9 – 46; G. Rochat, Roberto Brusati, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, vol. 14, Roma, 1974, pp. 691 – 693.
[28] Ministero della difesa, Sme, Ufficio Storico, L’esercito italiano nella grande guerra (1915 – 1918), vol. 2, Le operazioni del 1915, tomo 2º bis, Roma, 1929, p. 125.
[29] L. Girotto, 1866 – 1918, cit., p. 227.
[30] Ibidem.
[31] A.D.F., relazione, cit., pp. 7 – 8.
[32] L. Malatesta, La guerra dei forti. Dal 1870 alla grande guerra le fortificazioni italiane ed austriache negli archivi privati e militari, Nordpress, Chiari, 2003.
[33] L. Girotto, 1866 – 1918, cit., p. 223.
[34] A.D.F., notizie, cit., p. 9.
[35] L. Girotto, 1866 – 1918, cit., p. 270.
[36] Ibidem.
[37] A.D.F., notizie, cit., pp. 9 – 10.
[38] A. Tosti, Il maresciallo d’Italia Guglielmo Pecori Giraldi, Tipografia Bona ,Torino, 1940.
[39] Ministero della difesa, L’esercito, vol. IV, tomo 3º, cit., p. 539.
[40] L. Girotto, 1866 – 1918, cit. p. 274.
[41] Ministero della difesa, L’esercito, vol. IV, tomo 3º, cit., p. 539.
[42] L. Girotto, La lunga trincea, Rossato, Novale – Valdagno, 1996, p. 441.
[43] Ivi, p. 275.
[44] Ivi, p. 320.
[45] M. Barilli, Storia del 7º reggimento alpini, Tipografia Castaldi, Feltre, 1958, p. 370.
[46] A.U.S.S.M.E., fondo “Diario storico 1ª guerra mondiale”, repertorio B-1, racc. 2029 b, diario storico del battaglione M. Pavione, s.l., 8 novembre 1917.
[47] L. Girotto, 1866 – 1918, cit., p. 320.
[48] Ivi, p. 302.
[49] A.D.F., notizie, cit., p. 11.
[50] A.U.S.S.M.E., fondo “Diari storici 1ª guerra mondiale”, repertorio B – 1, racc. 2029 b, s.l., 11
[51] M. Barilli, Storia, cit., p. 377.
[52] L. Girotto, 1866 – 1918, cit., p. 303.
[53] W. A. Dolezal, I forti dimenticati, Pilotto, Feltre, 1999, pp. 62 – 63.
[54] Ivi, p. 63.
[55] L. Girotto, 1866 – 1918, cit, p. 315.
[56] A.D.F., notizie, cit., pp. 11 – 12.
[57] Ivi, p. 109.
[58] Ivi, pp. 111-112.iper modificare.
L’interesse dello storico e dell’appassionato, trattando l’argomento della cosiddetta “guerra dei forti”, si è indirizzato verso le fortificazioni italiane dell’altipiano di Asiago e verso quelle della cintura fortificata degli altipiani di Folgaria, Lavarone e Vezzena, tralasciando completamente di trattare altri settori, come ad esempio il Friuli, il Veronese, il settore bresciano per l’Italia, e, sull’altro versante, la fortezza di Trento, le Giudicarie, il Tonale, per le opposte fortificazioni austriache. Il motivo di questo mancanza è dovuto a molti fattori, uno dei quali fu che solamente i forti dell’altopiano di Asiago e quelli degli altipiani trentini vennero interessati dalle operazioni militari, mentre tutti gli altri forti ebbero una vita breve e priva di qualsiasi episodio degno di nota.
Uno dei settori, fino ad ora poco studiato, è stato quello dello sbarramento Brenta – Cismon, dove solo recentemente, con due pubblicazioni, W.A. Dolezal, I forti dimenticati e L. Girotto, 1866 – 1918. Soldati e fortezze tra Asiago e il Grappa, si è iniziata l’opera di riscoperta delle fortificazioni italiane costruite nella Valsugana a partire dal 1880, che non ebbero una vita bellica ricca di episodi, ma solamente una normale funzione di vigilanza, essendo molto lontane dalle prime linee. Questo saggio, partendo dalla varie decisioni di politica fortificatoria, delinea lo sviluppo delle fortificazioni del settore Brenta – Cismon fino ad arrivare allo scoppio della 1ª guerra mondiale, per concludere con i brevi combattimenti che ci furono nei primi giorni del novembre 1917, dopo i quali le fortificazioni italiane della Valsugana, occupate dagli austriaci, vennero abbandonate dal nemico solo alla fine della guerra.
1. La guerra del 1866 e la situazione delle difese in Valsugana.
Per avere una visione più chiara e il più possibile completa della linea fortificata alpina ed in particolare di quella inerente la linea Brenta – Cismon, occorre ripercorrere il lungo e travagliato iter politico – amministrativo che portò alla creazione dello sbarramento Brenta – Cismon.
Al termine della guerra del 1866, l’analisi compiuta dai comandi militari italiani, incaricati di redigere un piano generale delle fortificazioni per il regno d’Italia, dopo aver preso in considerazione il nuovo confine tra l’Italia e l’Austria – Ungheria, in particolar modo per quanto riguardava la zona della Valsugana, mise in evidenza l’importanza della zona compresa nel triangolo Primolano – Fonzaso – Cismon, per lo sbarramento del Canal del Brenta e per la difesa delle strade che, a sud di Primolano, si dipartivano dalla rotabile Bassano – Trento e la collegavano, da una parte con Feltre e, dall’altra, con l’altipiano dei Sette Comuni.
Nella relazione a corredo del Piano generale di difesa dell’Italia della Commissione Permanente della Difesa dello Stato, la Commissione Permanente per la difesa dello stato aveva indicato alcuni punti o zone da fortificare, in tutto 47 località, tra le quali figurò anche Primolano. Pure la versione ridotta del piano di difesa mantenne la posizione in Valsugana, prevedendo per essa uno stanziamento complessivo per £. 1.300.000. A tale scopo, per meglio attuare gli indirizzi espressi dal piano ridotto, tra il 1875 ed il 1879 venne istituita una Commissione militare per la difesa delle Alpi. Il lavoro della Commissione fu di visitare i luoghi per ipotizzare ampi lavori di fortificazione per controbilanciare lo sfavorevole andamento del confine trentino, dove un cuneo di territorio tirolese si spingeva minacciosamente a sud – est lungo la valle del Brenta, tra rilievi laterali tutti in possesso dell’Italia.
La prima direttrice di marcia di un eventuale aggressore era ovviamente quella che seguiva il corso del Brenta dal confine di Martincelli verso Primolano e Cismon. Ad essa si affiancava una via secondaria attraverso la quale le forze austriache, partendo dalla conca del Tesino, sarebbero calate su Arsiè, Fastro e Primolano attraverso l’altipiano del Celado, per minacciare Cismon sia confluendo nella colonna principale lungo il Brenta sia aggirando il massiccio del Col del Gallo passando dai villaggi di Rocca ed Incino. Un’altra linea poteva essere quella della regione di Frizone tirolese, perché attraverso essa si potevano conquistare sia Cismon che Primolano. Oltre ad essere in pericolo la città di Bassano, analoghi problemi aveva Feltre, che era minacciata sia dalle rotabili provenienti dalle valle di Fiemme, che dalla valle del Cismon.
Per tali motivi, la Commissione, fin dal 1879, sosteneva che per quanto riguardava la Valsugana, sussisteva la necessità del possesso della posizione delle alture di Aldegana e di Novegno, interposte fra la strada Arsiè – Primolano e lo sbocco del Cismon sul Brenta. Dopo un’attenta disamina della situazione in cui si venivano a trovare le due posizioni citate, che potevano essere battute da artiglierie appostate verso nord – ovest, valeva a dire nella zona di Castel Tesino, di Cima Cicogna. Per tale motivo la Commissione propose di occupare la posizione di Cima Campo con un’opera permanente che aveva il duplice scopo di interdire agli avversari l’avanzata attraverso Castel Tesino per arrivare, tramite Cima Campo, ad Arsiè, sia di favorire con l’azione delle artiglierie un’offensiva italiana che da Primolano doveva arrivare alla conca del Tesino[1].
Nel 1880, la Commissione propose la costruzione di una caserma difensiva a Cima Campo ed una a Cima Lan, che potevano contenere 300 uomini ciascuna. La funzione di queste opere difensive era quella di rafforzare Cima di Lan ad est dell’anzidetta ed anche di proteggere la ritirata su Arsiè delle truppe della difesa che avessero dovuto abbandonare la posizione di Cima di Campo. Questa proposta fu poi confermata dal comandante del III corpo d’armata nel piani direttivi delle fortificazioni di quella frontiera, inviato il 4 luglio 1882 ed approvato dal ministero della guerra con dispaccio in data 20 luglio. Oltre alle caserme, il progetto prevedeva che nel territorio fosse stanziato un battaglione di 800 o 1000 uomini.
Una volta che il progetto venne approvato da parte della direzione del genio di Verona, vennero compilati i progetti particolareggiati relativi alle due caserme per la loro costruzione. Questi progetti rimasero sulla carta a causa della situazione finanziaria dello stato italiano. Al posto di queste caserme difensive, vennero costruite le tagliate stradali del Tombion, della Scala, delle Fontanelle e Covolo di S. Antonio. La prima che venne edificata fu quella del Tombion, i cui lavori iniziarono nel 1884; il compito di quest’opera difensiva erano di sbarrare la strada proveniente dal confine di Primolano, per fare in modo che il nemico non potesse raggiungere Bassano e la pianura veneta. Data la posizione, la tagliata Tombion non poteva controllare e difendere la città di Feltre e per tale motivo vennero costruite la Tagliata Covolo di S. Antonio, nella zona di Fonzaso, e il sistema difensivo di Primolano con le Tagliate della Scala e delle Fontanelle.
Queste fortificazioni, costruite in pietra, armate con cannoni di piccolo calibro e mitragliatrici, secondo le direttive urgenti in quel tempo controllavano le provenienze dalle rotabili di confine. Lo sbarramento di Primolano fu l’ultimo in ordine di tempo ad essere costruito; la progettazione del sistema difensivo italiano iniziò nel 1882 e si concluse con il 1886. I lavori iniziarono con notevole ritardo rispetto alle altre opere, anche a causa di alcune diatribe burocratico – amministrative che contrapposero l’amministrazione militare e le comunità locali interessate agli espropri al momento dell’acquisizione dei terreni e della definizione delle servitù. I cantieri vennero aperti solamente nel 1892, ma l’attività costruttiva progredì molto velocemente, dato che già nel 1894 si era oramai alla fine dei lavori. Il progettista e direttore dei lavori fino al 1895, Giovanni Ivanoff, fu una figura molto particolare di ingegnere militare[2]; successivamente si sarebbe occupato anche dalla costruzione dei forti di Cima Campo e Cima di Lan.
Il complesso fortificato di Primolano progettato dall’ingegner Ivanoff avrebbe dovuto risolvere il problema che nei secoli scorsi aveva costantemente rappresentato il punto debole del castello medievale della Scala: dominare da vicino la conca di Primolano ed il nodo stradale che sul paese si imperniava (quindi sorgere un posizione più bassa e vulnerabile rispetto alle provenienze dalla sella di Fastro) ed allo stesso tempo controllare dall’alto la strada Arsiè – Fastro – Scala di Primolano (ovvero posizionarsi su un rilievo, anche modesto, più alto di Fastro stesso e dunque privarsi del controllo diretto del fondo della Valbrenta). Giovanni Ivanoff risolse brillantemente il problema, come sostiene Girotto “progettando due distinte fortificazioni: una inferiore, la Tagliata della Scala, ed una superiore, la Tagliata (o batteria) delle Fontanelle. La prima chiedeva a mezza costa l’intera sella di Fastro con un’opera principale sul lato ovest ed una casamatta minore sul lato est, collegate da una galleria trasversale per fucilieri a dominio dei tornati della Scala. Le sue artiglierie potevano agire in Valbrenta e teoricamente contrastare la possibile discesa nemica lungo la strada della Piovega di sopra. La seconda sorgeva sulla costa ad ovest di Fastro in località Cima della Scala, presso la frazione denominata Fastro – Bassanese, subito a destra della strada Primolano – Feltre. Le sue artiglierie battevano quest’ultima via da Fastro stesso fino al bivio delle strade per Arsiè e per Mellame. L’opera di Fontanelle sbarrava inoltre materialmente, autentica tagliata, la vecchia rotabile che da Fastro si dirigeva un tempo per Fastro Bassanese a monte Sorist costeggiando le pendici del Col dei Barc e da qui, divenuta semplice tratturo, scendeva a Tezze”[3].
Oltre alle 4 Tagliate, la cui costruzione avevano messo alla prova l’apparato tecnico – amministrativo del genio militare italiano, che avevano tra l’altro dovuto servirsi di tecnici ed imprese civili per poter rispettare i tempi prestabiliti, avevano però un raggio d’azione piuttosto ridotto relativamente al tiro delle artiglierie. Tale problema era dovuto sia alla posizione in cui erano state edificate ed anche in parte dalla disposizione sfavorevole delle feritoie che ostacolava una efficace copertura dei due versanti della valle del Brenta. A queste carenze si cercò solo parzialmente di porre rimedio con le due batterie di Col del Gallo, numericamente limitate ed in posizione troppo arretrata. Per completare il dispositivo Brenta – Cismon, vennero previste delle postazioni per artiglierie campali; tali batterie sarebbero state messe a disposizione del comando dello sbarramento solo in caso di guerra.
A seguito della sconfitta dell’esercito italiano ad Adua nel marzo 1896, nel periodo successivo, fino al 1905, continuarono i vari studi per il sistema difensivo italiano, senza per altro che venisse compiuto nessun lavoro di costruzione, in poche parole data la situazione economia dell’Italia i finanziamenti per la costruzione delle fortificazioni al confine con l’Austria – Ungheria furono congelati.
2. La costruzione dei forti di Cima Campo, Cima Lan e Lisser
Nel 1906, la sottodirezione del genio di Belluno, con atto del 13 giugno 1906, divenne Ufficio autonomo delle fortificazioni di Belluno, dipendente dal comando del genio di Verona. I lavori per la costruzione di Cima Campo iniziarono il 25 aprile 1906, dopo aver ottenuto da parte del ministero della guerra l’approvazione per la costruzione delle vasche, veniva affidata al cottimista Gorza Luigi la costruzione delle baracche degli operai che dovevano lavorare lì[4].
A partire dalla metà dell’800, si diffusero in Europa due scuole fortificatorie, definite dei forti corazzati e delle fronti corazzate. Il propugnatore della prima scuola fu il generale dell’esercito belga Henri Brialmont, il quale a partire dalla pubblicazione L’influence du tir plongeant et des obus torpilles sur la fortification del 1888 propose i forti corazzati mentre nella successiva La defense des etats et la fortification del 1895 presentò lo schema dell’organizzazione della linea di cintura di un campo trincerato[5].
Un elemento importante che aveva notevolmente modificato l’arte difensiva era stata la comparsa di granate torpedini le quali avevano una notevole potenza distruttiva. La linea di cintura del campo trincerato, proposta da Brialmont, non aveva sostanzialmente cambiato l’organizzazione difensiva fino ad allora utilizzata, essa si basava sull’impiego di opere permanenti grandi e piccole, punti di appoggio tali da poter esercitare l’azione alla grandi distanze, da presentare una difesa individuale ed autonoma.
Per poter soddisfare l’ordinamento proposto dal generale belga, si dovevano utilizzare le casamatte girevoli corazzate, per tale motivo sia Brialmont e i seguaci di questa scuola furono considerati i rappresentanti della scuola dei forti corazzati[6].
L’ideatore della scuola delle fronti corazzate fu il generale bavarese von Sauer, il quale nel libro pubblicato nel 1885 dal titolo Recherches taltiques sur les formes nouvellas de la fortification ed in alcune conferenze da lui tenute ad Ingolstadt nel 1889 espose un metodo di attacco delle fortezze, conosciuto nella storia dell’arte ossidionale, col nome di attacco alla von Sauer. Secondo le proposte di questa scuola, le grandi opere non esistevano più e la linea esterna risultava formata da una grande quantità di piccole opere corazzate e di calcestruzzo scaglionate e disposte a brevi intervalli l’una dall’altra, dandosi così reciproco appoggio in modo da costituire una vera fascia difensiva, larga un migliaio di metri, che girava attorno al corpo di piazza, a distanza variabile da esso dai 4 ai 6 km, basandosi sul concetto dell’azione frontale diffusa su tutta la linea. Per quanto riguarda le opere italiane che si costruirono a partire dagli inizi del 900, esse seguivano i dettami tecnici del modello Rocchi[7], il quale era uno dei discepolo della scuola dei forti corazzati.
I principi costruttivi del forte Rocchi vennero esposti nella pubblicazione intitolata La forticazione in montagna[8 ; questo disegno costruttivo seguiva come concetto direttivo i due principi seguenti:
1° agli effetti aumentati ed alla mobilità delle artiglierie dell’assalitore potrà la difesa ostare soltanto coll’impiego del calcestruzzo e delle corazze ed aumentarlo a sua volta la mobilità delle artiglierie della piazza;
2° per altro, per non oltrepassare i limiti generalmente ristretti delle somme assegnate nei bilanci per le costituzioni fortificatorie, non è possibile fare troppa larga applicazione dei mezzi di protezione sopra indicati (corazze a calcestruzzo) e converrà affidarsi essenzialmente alla difesa mobile[9].
Questi forti ideati da Rocchi erano disposti ad intervalli di 4 km l’uno dall’altro. Le opere erano armate con 4 o 6 cannoni da 12 cm su cupole corazzate. Oltre a ciò, all’esterno della fortezza, se il terreno lo permetteva, potevano essere disposte delle batterie costituite da obici da 15 cm.
Il fortino con torri girevoli corazzate, destinate a costruire il nucleo dell’armamento di protezione di uno sbarramento, ovvero un centro di resistenza, in appoggio a batterie scoperte, occasionali od improvvisate.
L’ordinamento in linea retta, normale nelle batterie scoperte, si presentava evidenziando opportunismo quando l’armamento era installato in torri girevoli, o in affusti corazzati, essendo anche in questo caso il più conveniente, sia per l’azione del fuoco, sia per attenuare gli effetti del tiro nemico.
Dovendo, l’accennato nucleo difensivo comportarsi come opera autonoma, occorreva l’organizzazione di un recinto di sicurezza, ai cui salienti trovavano impiego talune torrette corazzate a scomparsa per cannoni a tiro rapido di piccolo calibro, i quali oltreché alla difesa vicina, potevano, per la loro gittata (superiore ai 4000 m), concorrere all’azione lontana, tanto più che il loro settore verticale di tiro, abbastanza ampio in depressione, consentiva di battere, anche con tiri diretti, punti giacenti, in angolo morto delle bocche da fuoco corazzate, di medio calibro.
Inoltre l’opera doveva essere dotata di osservatorio in cupola e di proiettori in cupola per l’osservazione del terreno circostante il fortino.
Rocchi, calcolava approssimativamente il costo dell’opera in un milione di lire, di cui lire 500000 circa per le installazioni corazzate (nel caso dei cannoni da 12) ed altrettanto per i lavori di calcestruzzo cementizio, di muratura ordinaria, di terra ed accessori.
Agli inizi del 1906 iniziarono i lavori per la costruzione della prima fortificazione della linea Brenta – Cismon, il forte di Cima Campo. I lavori di costruzione erano diretti dal capitano del genio Antonio Dal Fabbro con l’ausilio dell’impresa Gorza Luigi di Feltre, con la quale si stipulavano delle scritture private per ogni singolo lavoro[10].
Il 26 giugno, venne costituito l’ufficio provvisorio di Cima Campo, composto dal capitano Dal Fabbro e dall’aiuto ragioniere geometra Maurizio Piperno. Il 13 luglio venne liquidato il cottimo delle vasche all’impresa Gorza per l’ammontare di £ 3.997.65, ed il primo cottimo dei lavori preliminari di £ 3.994.75. Successivamente vennero scritturate, sempre con la stessa impresa la 4 scrittura privata di £ 4.000., la 5 e la 6 sempre di £ 4.0000.
In quei mesi, oltre alla costruzione delle vasche e delle baracche, il capitano Dal Fabbro, stava progettando la costruzione di una teleferica che doveva collegare Cima Campo a Fastro, la spesa secondo il progetto sommario doveva essere di £ 1.100.00.
Nel mese di agosto vennero liquidate la 2 scrittura privata di £ 3.9979.93, la 3 di £ 3.979.95 e i lavori vennero visitati da alcuni membri della Commissione internazionale per la revisione dei confini e dal colonnello Filippa, sottodirettore dell’Ufficio delle fortificazioni di Belluno, dal generale Gobbo, comandante del V corpo d’armata, dall’Ispettore generale del genio, il comandante del genio di Verona, generale Bonazzi e dal maggiore Leoncini.
Il 5 settembre, venne liquidata la 4 scrittura dei lavori preliminari all’impresa Gorza per £ 3.999, inoltre si stipulava la 1 scrittura con il cottimista sopraddetto per i lavori di scavo dell’opera di £ 4.000.; il 12 si iniziò il tracciamento della strada d’accesso[11].
Nei mesi successivi, fu sentita la ditta Ceretti e Tanfani di Milano, per la scrittura privata per la realizzazione della teleferica e vennero stipulate con il solito cottimista le scritture 8 e 9 dei lavori preliminari, ci furono le visite del generale Bonazzi e del colonnello Filippa, una notevole diminuzione del numero di operai disponibili, ciò era dovuto all’inizio dell’anno scolastico dell’accademia di Torino, visto che alcuni degli operai erano degli allievi dell’Istituto.
A partire da novembre iniziarono a peggiorare le condizioni atmosferiche, ma questo fattore climatico non fece rallentare i lavori che avevano ritmo sostenuto guidati, dal capitano Dal Fabbro; in quel periodo continuarono gli scavi e iniziarono i lavori per le gallerie e furono ultimati i baraccamenti. L’ufficio provvisorio di Cima Campo venne sciolto il 19 dicembre.
Dall’analisi del diario dei lavori, si può dire che da aprile a dicembre del 1906 vennero eseguiti molti lavori per la costruzione del forte Cima Campo, grazie soprattutto al grosso impegno profuso dal capitano Dal Fabbro, direttore dei lavori. Il 1907 vide sulla carrareccia Fastro – Fornaci – Col Perer, che poi prosegue per Cima di Campo, un’interrotta teoria di carri che trasportavano materiali per i lavori, in aiuto alla seppur capace teleferica che partiva da Fastro – Fornaci.
Nello stesso anno, si iniziò il montaggio di una lunga teleferica composta da 32 vagoncini mossa da motore a vapore, del costo complessivo di £. 110.000, che avrebbe trasportato il materiale di costruzione (sabbia, cemento, legname, attrezzi, etc) dai pressi di Primolano – località Prà del Bec – fino alla sommità di Col dei Barc. Da qui un secondo impianto arrivava su Cima Campo, dove dai 200 ai 300 operai lavoravano con un orario giornaliero di 10 ore per una retribuzione compresa da £. 1.80 a £. 3.50. Tra di loro figuravano anche numerosi trentini, operai specializzati, abili muratori o anche semplici manovali, quasi tutti cittadini asburgici provenienti dai paesi poveri della Valsugana ed attirati da un paga regolare. Per questo motivo, non era difficile per i servizi d’informazione militare dell’esercito imperiale, mescolare tra questa gente delle spie, sia civili ma anche militari, che informavano i comandi militari austriaci dello svolgimento dei lavori di fortificazione italiana.
4. Militari e civili nel settore Brenta – Cismon: alcuni casi di spionaggio militare
Notizie sullo svolgimento dei lavori si può trovare anche nella stampa locale dell’epoca, tanto che nel 1909 il periodico “Il Vittorino di Feltre”, in un articolo intitolato “Per la difesa dell’Italia alla frontiera di Feltre” affermava: “Sulla vetta di Campo fervono i lavori sul forte grandioso che dominerà il Tesino, e i valichi battuti dai fanti e dai cavalli di Sigismondo imperatore e dalla leggenda connessi alla custodia di San Vittore”[12]. Nel 1908 iniziarono i lavori della 2 opera fortificata dello sbarramento, il forte Cima di Lan, acquattato tra larici ed abeti a 1261 metri di quota sopra la val Cismon. Nel 1910, in questo cantiere, erano attivi oltre 500 operai della ditta Gorza, con la solita nutrita rappresentanza da trentini, spioni ed onesti lavoratori che fossero.
Oltre alla funzione di direttore dei lavori delle opere fortificate, il maggiore Dal Fabbro, promosso maggiore nel 1910, in qualità di comandante del presidio dello sbarramento Brenta – Cismon, doveva assolvere degli incarichi amministrativi della vita di guarnigione, quali ad esempio i matrimoni degli ufficiali subordinati[13], i comportamenti degli abitanti delle zone e i rapporti con le imprese e i casi di spionaggio.
Il 15 novembre il Comando della divisione militare di Padova richiese alcune informazioni riguardo alla futura moglie del tenente Tuzzi, capo sezione d’artiglieria di Primolano[14]. In merito al matrimonio degli ufficiali, il 31 luglio era stata emanata una circolare nella quale si ribadiva che “le autorità militari in ogni caso siano quanto mai scrupolose nell’accertare della perfetta moralità e della conveniente posizione morale della sposa, e con ogni cura indaghino nei riguardi dei membri della sua famiglia di origine; né meno scrupolosi e rigidi, per la gelosa tutela del decoro dell’esercito, siano nel fornire il parere che dovrà servire di base alle ulteriori decisioni del Ministero per la concessione del R. Assentimento”[15].
La risposta da parte del maggiore arrivò il 18 dicembre. Le informazioni raccolte sulla signorina Taverna sia per la sua vita familiare che per la sua condotta morale; nella sua famiglia esistevano dei casi di alcolismo, una reputazione non buona ed anche un caso di uxoricidio, tutte caratteristiche che non erano favorevoli al matrimonio con l’ufficiale Tuzzi[16].
Un caso spinoso che il maggiore Dal Fabbro dovette affrontare fu quello dello spionaggio e della fuga di notizie sui lavori di costruzione del forte Lisser.
Il 23 settembre 1911, il Comando della divisione di Padova inviò all’ufficiale una lettera nella quale di sosteneva che nella Domenica del Corriere del settembre 1911 era stato pubblicato un articolo e delle fotografie dei lavori del forte Lisser che si stavano compiendo. L’ordine impartito era quello di appurare le circostanze in cui le fotografie erano state scattate e il motivo della negligenza del personale di sorveglianza per la pubblicazione del materiale riservato[17].
La risposta arrivò il 30 settembre, il maggiore Dal Fabbro non fu in grado di fornire delle notizie esatte sull’autore dell’articolo e delle fotografie; ma era a conoscenza che alcuni ufficiali del 3 gruppo del 9 reggimento artiglieria da fortezza durante le operazioni di traino dei cannoni da 149 mm avevano scattato delle fotografie, l’ufficiale addossava la colpa della fuga di notizie e di immagini ai carabinieri, i quali “sapevano benissimo che era proibito ai borghesi di prendere fotografie del traino e dei materiali di artiglieria, fotografie prese dagli stessi ufficiali addetti al traino, i carabinieri non avevano creduto di poter proibirlo”[18].
L’ufficiale del genio proponeva di proibire agli ufficiali impegnati nei lavori per le opere permanenti l’utilizzo delle macchine fotografiche, mentre sottolineava che nel caso in questione, c’èra da prendere in considerazione il fatto che i cannoni del forte Lisser erano giunti tramite ferrovia fino alla stazione di Primolano, “sotto gli occhi degli agenti della nazione alleata, i quali non avranno certamente mancato di prendere nota e di informarne chi di ragione. Inoltre detto materiale, compresi i proiettili, fu trasportato sul Lisser senza che vi sia stata presa alcuna precauzione per tener nascoste, od almeno riservate, nel limite del possibile le operazioni di traino”[19].
Secondo l’opinione di Dal Fabbro, “se gli ufficiali fossero stati esatti della necessità di tener celato più che era possibile l’importanza e la natura delle operazioni che essi stavano compiendo probabilmente non sarebbero state fatte fotografie sul traino di queste, con le notizie relative all’armamento di M. Lisser, sarebbero state pubblicate sulla Domenica del Corriere”[20].
Il 2 ottobre, si venne a conoscenza di ulteriori informazioni in merito a ciò: l’autore delle fotografie e dell’articolo non era un ufficiale come si era pensato, ma un civile, valeva a dire l’addetto tecnico alla costruzione della strada comunale sig. Ciorgini; il brigadiere dei carabinieri, interrogato dal capitano del genio Cesare Tiraboschi, rispose di non aver dato peso alla questione anche perché il civile era considerato un patriota[21].
La segretezza delle notizie non era molto forte in quei luoghi, tanto che l’impresa Toffanin che aveva costruito alcune opere fortificate in Cadore, era venuta a conoscenza di notizie in merito ai lavori di costruzione delle opere del Lisser e di Coldarco, informazioni che erano considerate riservate.
Un episodio di sentimento antinazionale e spionaggio fu quello del parroco di Enego. Nel settembre del 1911 il Comando della divisione inviò a Dal Fabbro una lettera nella quale si ordinava di sorvegliare il parroco del paese montano, perché “dimostra con suo contegno e coi suoi discorsi sentimenti avversi all’Esercito e al paese, è necessario – data l’importanza della zona nella quale egli risiede – che sia attentamente sorvegliato, anche più specialmente per le eventuali relazioni che egli avesse con persone straniere”[22].
Le informazioni raccolte dal comandante del presidio erano molto chiare: secondo le testimonianza del comandante dei carabinieri della stazione di Enego, il sacerdote aveva con atteggiamento visibilmente ostile verso lo stato italiano tanto che si parlava di rapporti con persone straniere per comunicare loro informazioni sullo stato dei lavori al forte Lisser; la maggior parte della popolazione del paese montano non era d’accordo con le posizioni ostili prese dal prelato.
Per fare un esempio del comportamento del parroco, Dal Fabbro citava il caso della costruzione della strada Enego – M. Lisser e della caserma, il sacerdote secondo le parole dell’ufficiale “non voleva saperne assolutamente di soldati italiani e operai perché non venga costruita una caserma”[23]; in conclusione il maggiore sosteneva che “l’ostilità del parroco di Enego è quindi assai dannosa moralmente e materialmente non solo, ma i suoi noti sentimenti anti italiani, tendono a dare un serio valore alla voci che lo additano come spia. Ritengo perciò che una rigorosa e severa inchiesta condotta da qualche abile ufficiale dei carabinieri sarebbe in questo momento assai opportuna nel senso che si potrebbe prendere occasione del rapporto del Comando del 3 gruppo d’artiglieria da fortezza per farla eseguire”[24].
Il Comando della divisione militare, teneva conto dell’attenta relazione sopraccitata, ordinava al Comando del presidio “di disporre presso gli organi dipendenti per una velata e attenta sorveglianza”[25]. In ottemperanza a questa circolare il maggiore Dal Fabbro raccomandava che i capi squadra ed il personale dell’ufficio del Genio di Enego non avessero nessun rapporto con il parroco, in caso contrario dovevano venir licenziati seduta stante per fare in modo che non ci fosse una fuga di notizie.
Così terminava questa singolare vicenda paesana che era stata al centro dell’attenzione delle autorità militari, e dal carteggio analizzato si può notare che aveva destato molto più clamore rispetto alla pubblicazione dell’articolo sulla Domenica del Corriere.
In quegli anni, oltre a questi singolari episodi di spionaggio militare, i lavori per la costruzione dei forti Cima di Campo e Cima di Lan e Lisser continuarono, visto che i tempi previsti per finire i lavori erano molto ristretti. Nel 1910, lo sbarramento Brenta – Cismon era oramai prossimo al suo assetto definitivo: mancava ancora l’inizio dei lavori di costruzione di forte Lisser e della batteria in caverna di Coldarco. Il cantiere di forte Lisser venne aperto tra il 1911 e il 1912 e il cantiere di Coldarco venne aperto nel 1912. Queste due opere fortificate avevano lo scopo di controllare le provenienze dall’altipiano dei Sette Comuni e la stretta di Primolano. Nel novembre del 1914, anche le nuove opere della fortezza Brenta – Cismon (Cima Campo, Cima Lan, Lisser e Coldarco) erano praticamente tutte completate e lo sbarramento aveva assunto una condizione di piena efficienza. La sua guarnigione in tempo di pace era comunque estremamente ridotta; comprendeva soltanto l’8 compagnia del 7 reggimento artiglieria da fortezza.
Le fortificazioni del settore vennero classificate in 3 raggruppamenti in relazione alla loro collocazione ed ai compiti conseguentemente attribuiti distinguendo:
a) opere di prima linea, il cui campo di tiro doveva garantire la copertura dell’intera area dello
sbarramento, con attenzione particolare alle vie di possibile invasione, nonché permettere di
bersagliare obiettivi posti oltre frontiera; appartenevano a questa categoria le opere Lisser,
Coldarco, Cima Campo e Cima Lan;
b) opere di interdizione delle rotabili principali: Tagliata
c) Tombion, Tagliata della Scala, Tagliata delle Fontanelle e Tagliata Covolo di S. Antonio;
d) opere di seconda linea, destinate ad integrare l’opera dei forti di prima linea ed a fornire un
appoggio in caso di ritirata: batterie occasionali di San Vito e batterie di Col del Gallo[26].
Allo scoppio della guerra con l’Austria – Ungheria, la zona dello sbarramento Brenta – Cismon, faceva parte della 1 armata comandata dal generale Roberto Brusati[27], del 5 corpo d’armata del generale Fiorenzo Aliprindi e della 15 divisione del generale Lechantin. A disposizione della divisione c’erano le seguenti truppe: brigata Venezia (83 e 84 reggimento), brigata Abruzzi (57 e 58 reggimento), dal 4 reggimento bersaglieri, dal XLI battaglione autonomo bersaglieri, dai battaglioni alpini Feltre e Val Cismon, dal 2 reggimento bersaglieri, da cinque batterie del 19 reggimento artiglieria da campagna, dalle tre batterie di artiglieria da montagna (4 - 5 - 6) del gruppo Torino – Aosta (II gruppo del 1 reggimento), dalla 1 batteria del gruppo Torino – Susa (I gruppo del 1 reggimento di artiglieria da montagna) e dalla 1 compagnia zappatori del 2 reggimento Genio.
Erano inoltre a disposizione della divisione, per l’occupazione avanzata, i reparti della Guardia di Finanza e le guardie forestali (queste ultime avrebbero dovuto essere utilizzate soprattutto come guide), già di stanza nella corrispondente zona di frontiera. Oltre a questa non indifferente massa di truppe si aggiungevano i reparti destinati al presidio delle fortificazioni dello sbarramento Brenta – Cismon e delle postazioni fisse o occasionali di artiglieria. Le truppe assegnate al Comando dello sbarramento Brenta – Cismon erano costituite dal 5 battaglione presidiario (su 3 compagnie, 7, 8 e 9) del 6 gruppo del 9 reggimento artiglieria da fortezza (su due compagnie di Milizia Mobile, 14 e 16) e dalla 18 compagnia di Milizia Mobile del 4 reggimento artiglieria da fortezza.
5. Lo scoppio della 1 guerra mondiale e gli avvenimenti militari nella Valsugana
Il 23 maggio 1915, venne proclamato lo stato di resistenza della fortezza Brenta – Cismon che cioè da quel momento avrebbe dovuto garantire piena operatività bellica. Le opere permanenti Lisser, Coldarco, Cima di Campo e Cima di Lan, Covolo di S. Antonio, Tagliata della Fontanella, Tagliata della Scala e Tombion erano pronte ad aprire il fuoco; oltre ad esse erano pronte all’azione le batterie occasionali di Col della Spina (4 cannoni da 75 A), San Vito (4 da 75 A), Cima Lan (4 da 75 A), Col di Gnela (4 da 75 A), Col dei Barchi (4 da 75 A), Col Celado (4 obici da 149 G) e Col Mangà (4 obici da 149 G).
Secondo le disposizioni emanate dal Comando della 1 armata il 30 aprile, riguardanti le direttive per il periodo della mobilitazione e radunata alla frontiera nord – est, nella regione Brenta – Cismon – Mis, dato l’andamento del terreno “si consigliava l’occupazione immediata, all’inizio delle ostilità, della linea Costa Alta – Val d’Atenne, in corrispondenza della regione Marcesina – Lisser; della linea Col Balestrina – M. Pasolin – M. Picosta – M. Agaro – Remitte – Totoga – Viderne, in corrispondenza della testata Senaiga ed a cavallo del Cismon; infine l’occupazione di passo Cereda (Sasso della Padella e Dolaibol – Rocchetta) in testa della valle del Mis”[28].
Il giorno 24 maggio, all’una di notte, il Comando della 15 divisione, emanò da Feltre, sede del Comando della divisione, l’ordine di operazione n. 1 avente come oggetto “Attacco ed occupazione di Costa Alta – Col dei Meneghini; Col Balestrina; Passo Cereda”. Tra le varie disposizioni, alcune erano specificatamente riservate al Comando della fortezza Brenta – Cismon “rimarrà un battaglione del 58 battaglione a Cima Campo ed un battaglione dell’84 (3 compagnie) a Croce d’Aune. L’83 reggimento fanteria si trasferirà in mattinata per le ore 8 con Comando e 2 battaglioni tra Cismon e a la Tagliata del Tombion; un battaglione a ridosso della batteria Fontanelle. Il comandante della fortezza disponga che le opere permanenti e le batterie occasionali siano pronte ad appoggiare, ognuna nel proprio raggio d’azione, l’avanzata delle truppe operanti, di propria iniziativa, secondo le osservazioni che direttamente potranno fare e secondo le richieste dei comandanti di sottosettore. L’intero presidio della fortezza sarà sotto le armi ed al proprio posto di combattimento”[29].
Nel corso della notte e della mattinata del 24 maggio, le truppe dislocate in Valsugana, in particolar modo il 1 battaglione del 58 reggimento di fanteria, si mossero dall’avamposto dietro il forte Cima di Campo per occupare la posizione oltre confine di Col Balestrina (o Col della Cicogna) venendo subito rimpiazzate dal 2º battaglione salito da Arsiè. Le truppe italiane procedettero senza trovare nessun ostacolo lungo i dolci e boscosi crinali e per le 4.15 l’obiettivo era conseguito, senza che i 6 pezzi da 149 mm del forte Cima di Campo avessero sparato un solo colpo; sostiene Girotto “cadeva così in mano italiana il rilievo che avrebbe potuto rappresentare una minaccia letale per forte Leone se su di esso si fossero concretizzati i progetti asburgici del primo decennio del’900 con la edificazione della prevista opera corazzata e dell’annessa batteria di mortai da 210 mm”[30].
Nella stessa mattinata, i reparti bersaglieri del sottosettore Lisser – Brenta, agli ordini del generale Amari, avanzarono sull’altipiano in zona Barricata con due battaglioni, fino ad occupare il margine tattico della posizione sul Brenta: il 41 battaglione autonomo si schierò su Col Meneghini e Colle Val d’Atenne, mentre il 37 battaglione bersaglieri occupò la linea Castello di San Marco – Barricata – Costa Alta. Anche quella zona dell’altipiano dei Sette Comuni cadeva senza colpo ferire in mano italiana. Durante lo svolgimento di quest’azione offensiva le opere di Lisser e di Coldarco, pur essendo pronte al fuoco, non entrarono in azione perché da parte austriaca non vi fu nessun movimento.
Nei giorni successivi, le truppe della 15 divisione arrivarono ad occupare delle posizioni sul ciglio settentrionale dell’altipiano dei Sette Comuni da monte Aveati a Cima Mandriolo ed il controllo della stretta di Ospedaletto, di monte Lefre e dell’intera conca del Tesino garantivano in pratica la neutralizzazione dell’intera bassa Valsugana austriaca, senza doverla materialmente occupare e permettendo un considerevole risparmio di forze alle truppe della 15 divisione. Con questo balzo in avanti, i forti del settore Brenta – Cismon erano oramai troppo lontani dalla prime linee per poter assolvere i loro compiti, il solo che dopo l’avanzata del 5 giugno mantenne ancora qualche possibilità d’intervento era il forte Cima di Campo, che coprendo l’intero altipiano del Celado ed ampliando la sua azione a monte Agaro, al Tesino ed alla stretta di Ospedaletto.
Il giudizio del generale Dal Fabbro, in merito ai primi giorni di guerra nel settore Brenta – Cismon era: “nella notte dal 23 al 24 maggio 1915 le nostre truppe sconfinarono e si impadronirono senza trovar resistenza alcuna, delle posizioni pericolose sopra indicate. In tal modo fino dal I giorno di mobilitazione le opere permanenti dello sbarramento di val Brenta e Cismon venivano lasciate indietro e le nostre truppe avanzarono fino a sistemarsi su posizioni forti dalle quali potevano senza troppe difficoltà difendere e proteggere il territorio conquistato; accorciando nello stesso la fronte. Ciò rientrava nei compiti che erano stati assegnati dal Comando Supremo della 1 armata. Con l’avanzata delle truppe, nel tratto di frontiera compresa fra la Croda Grande (val Cismon) e M. Croce di Comelico col primo balzo in avanti compiuto dalle nostre truppe per assolvere il compito ad esse affidato dal Comando Supremo, si veniva in possesso di posizioni che se occupate dal nemico avrebbero ostacolato seriamente la nostra avanzata mentre avrebbero facilitato azioni offensive contro i nostri sbarramenti”[31].
In questa situazione, dove le fortificazioni non avevano più nessun compito difensivo, data la carenza di cannoni che esisteva nell’esercito italiano e nel caso specifico della Valsugana, della 15 divisione, il comandante della divisione, il generale Lechantin decise di iniziare a spostare uomini e materiali dai territori dello sbarramento per utilizzarli nelle prime linee a supporto delle truppe della 15 divisione. A causa della mancanza di artiglierie iniziò il processo di disarmo delle fortificazioni del settore Brenta – Cismon. Secondo gli intendimenti dei comandi militari della zona, si dovevano rafforzare le prime linee utilizzando i materiali e gli uomini dei forti, rinunciando alla funzione d’appoggio che avrebbero potuto fornire le opere permanenti; in poche parole si scelse il male minore.
Un’altra considerazione che venne a consigliare il disarmo dei forti, non solo del Brenta – Cismon ma dell’intero sistema difensivo italiano, fu tragedia del 12 giugno successa al forte Verena nell’altipiano di Asiago, dove un colpo austriaco da 305 mm provocò la morte di 3 ufficiali e oltre 40 militari[32].
Ai primi di luglio, il Comando della 1 armata emanò, in seguito al disastro del Verena, degli ordini riguardanti il disarmo dei forti italiani nel territorio di competenza dell’armata; tali ordini come sottolinea Girotto, “giunsero come manna dal cielo al Comando della 15 divisione, per la quale la carenza di bocche da fuoco campali era un problema oramai assillante e in prospettiva d’aggravarsi con l’imprevisto allungamento delle linee tra la Valsugana ed il Primiero”[33]. Il 15 luglio, il Comando dello sbarramento venne posto alle dipendenze della 15 divisione. Questa decisione in poche parole segnava la fine dello sbarramento Brenta – Cismon, perché oramai tutte le decisioni venivano prese dal comandante della divisione.
Il 31 luglio, giunse ad Arsiè l’ordine di iniziare il disarmo delle opere di Cima Campo e Cima di Lan; solamente il 20 agosto iniziarono effettivamente le operazioni per il disarmo dei forti. Nei mesi di settembre e ottobre, alcuni pezzi d’artiglieria vennero installati all’esterno dei forti. Nel periodo maggio 1915 fino al maggio dell’anno successivo, secondo l’autorevole opinione del generale Dal Fabbro, le fortificazioni italiane servirono:
1 - a proteggere le operazioni di mobilitazione ed a coprire la radunata dell’esercito;
2 - a costituire i punti di partenza e di appoggio per l’occupazione della linea del confine e di posizioni situate al di là del confine stesso dalle quali si poteva più efficacemente e con minor impiego di forze assolvere i compiti assegnati all’armata. Dette funzioni, essendo stata la nostra avanzata improvvisa e contemporanea alla dichiarazione di guerra, vennero ben assolte dagli sbarramenti”[34].
6. L’offensiva austriaca del maggio – giugno 1916
Nel periodo dell’offensiva austriaca del 1916, le fortificazioni del Brenta – Cismon, (all’infuori che il forte Lisser che secondo le testimonianze di Alfredo Graziani e Emilio Lussu, entrambi ufficiali della brigata Sassari, sparò in direzione della zona delle Melette. È ancora da appurare se i cannoni erano ancora all’interno delle cupole corazzate o all’esterno dell’opera) non spararono, dato che oramai erano prive di cannoni e delle munizioni necessarie per aprire il fuoco. Dopo che l’offensiva austriaca terminò, nei mesi successivi continuò la vita di routine delle opere del settore Brenta – Cismon fino a quando, quasi un fulmine a ciel sereno, il 23 novembre 1916, giunse ad Arsiè una comunicazione da parte del Comando dell’armata, che determinò la vera e propria fine dello sbarramento Brenta – Cismon. Il comunicato diceva “Con effetto immediato, si dispone la radiazione della Fortezza Brenta – Cismon. Con la medesima decorrenza viene istituita il “Presidio Tagliata della Scala”[35].
Come sostiene giustamente Girotto: “Finiva così la storia ufficiale della Fortezza Brenta – Cismon ma non la sua effettiva vicenda bellica". Per le imponenti strutture in pietra e calcestruzzo l’oblio sarebbe durato solamente un anno prima che nuovi e ben più drammatici avvenimenti ripresentassero in forma attuale la minaccia per fronteggiare la quale le opere erano state edificate nei decenni precedenti”[36].
Al momento dell’offensiva, seguendo le parole di Dal Fabbro, le opere permanenti nel tratto di fronte in questione erano le seguenti:
a) tutte le opere erano state disarmate per impiegare i materiali di artiglieria a protezione
delle nuove linee di difesa;
b) le opere di Campolongo, M. Verena e Punta Corbin avevano l’armamento di medio calibro
installato fuori dalle opere e proseguivano il loro tiro contro i forti di Luserna;
Nei giorni che precedettero detta offensiva, che fu iniziata il 16 maggio 1916, in seguito ad una visita di S.E. Cadorna, furono ritirate le artiglierie di medio calibro che erano state portate troppo avanti e si mise mano a rendere più robuste le linee di resistenza. In Valsugana le nostre truppe si ritirarono sulla sponda sinistra del torrente Maso, appoggiandosi ai massicci di Cimon di Rava e di Cima d’Asta. Il nemico il 24 giugno iniziò la ritirata e si stabilizzò sulla nuova linea di Val d’Assa. L’opera di M. Lisser, che erano disarmata, fu colpita da due proiettili da 305. Uno cadde sopra uno dei pilastri d’ingresso del cortile dell’opera: lo frantumò e grosse schegge colpirono la facciata in pietra del ricovero interno, asportando dei tratti di stipiti. Un altro proiettile cadde all’estrema sinistra del corridoio di batteria, s’incastrò nella volta di calcestruzzo dello spessore di 2 m sparse l’ogiva dall’intradosso della volta e non scoppiò. Nei pressi dell’opera erano piazzate delle batterie da 102 che sparavano per far credere al nemico che l’opera fosse armata. dopo qualche giorno il nemico si ritirò ed anche l’opera di M. Lisser rimase fuori tiro delle artiglierie nemiche.
Riassumendo si può ritenere che ben poca o nessuna influenza abbiano avuto le opere permanenti degli sbarramenti esistenti fra il Garda e Croda Grande nell’andamento delle operazioni del Maggio – Giugno 1916 sulla fronte del Trentino”[37].
7. La disfatta di Caporetto e la ritirata della 4 armata
A seguito della disfatta di Caporetto, la 1 armata non aveva risentito dello sfondamento nel fronte giulio. Solo il 27 ottobre con la caduta di Monte Maggiore e la conseguente decisione del generale Cadorna di far ripiegare l’intero schieramento; il comandante della 1 armata, il generale Guglielmo Pecori Giraldi[38] rendeva noto ai comandi dipendenti le direttive emanate dal Comando supremo, dove il compito della grande unità doveva essere quello di “costituire una barriera insormontabile per il nemico ed impedirgli ad ogni costo di sboccare in piano”[39].
Prima del ripiegamento la zona di competenza del 18 corpo d’armata, comandato dal generale Adolfo Tettoni, che faceva parte della 4 armata, era composta dalle divisioni:
51 divisione (generale Tamagno): in Valsugana, fra le pendici settentrionali di cima Caldiera e Strigno;
15 divisione (generale Quaglia): da Strigno a cima d’Asta, passando per le vette di Rava;
56 divisione (generale Pittalunga): di fronte alle posizioni austriache del Lagorai, da passo Cinque Croci a cima Valcigolera passando per la regione dei Colli e Cauriol, Cardinal e Busa Alta.
Dopo aver alleggerito le prime linee, a partire dal 5 novembre le divisioni si mossero lentamente dalla destra dello schieramento; la 56 divisione ripiegò verso Cismon, la 15 e la 51 per la val Brenta, lasciandosi alle spalle dei reparti di copertura, che avevano il compito di assicurare il ripiegamento del grosso delle truppe italiane. Il 1 novembre il grosso della 15 divisione era a sud del massiccio del Grappa, quello della 51 allo sbocco della val Brenta, quello della 56 divisione nella zona di Fonzaso[40].
Il 9 novembre nel pieno della fase di ripiegamento, il Comando supremo emanò un fonogramma al comando della 1 e della 4 armata in merito al settore Brenta – Cismon, dove veniva consigliato che per la saldatura di alcune posizioni tenute dal 18 e 20 corpo d’armata si doveva ottenere attraverso la regione Cima Campo – Cima di Lan[41]. Per tale motivo a partire dal 10 novembre per disposizione del comando generale delle truppe di copertura della divisioni 56, 15 e 51; esse andarono a formare il gruppo denominato “colonna Piva” che aveva tre compiti fondamentali:
1) permettere agli elementi del 18 corpo già rientrati nelle linee di avviarsi da sud allo
schieramento previsto sul massiccio del Grappa;
2) permettere ad altre forze del medesimo corpo d’armata di occupare gli speroni avanzati di
Monte Roncone e Monte Tomatico secondo nuove disposizioni del Comando Supremo;
3) permettere alla colonna degli ultimi 20.000 ritardatari (del 1, 9 e 12 corpo d’armata) adunati
a Belluno di entrare nella valle del Brenta sfuggendo alla minaccia d’accerchiamento[42].
Il gruppo di copertura era composto:
- dal distaccamento del colonnello Streva, comandante del 6 reggimento della brigata Aosta, che con due battaglioni del 6 reggimento fanteria, il battaglione Monrosa in rincalzo, con due batterie da campagna ed una da montagna, teneva lo sbarramento di Tezze da Pizzo di val d’Atenne a Cima Campo esclusa;
- dal distaccamento del tenente colonnello Sirolli (battaglioni alpini Monte Pavone e val Brenta, 1 batteria da montagna) che occupava la linea Cima Campo – Cima di Lan;
- dal distaccamento del tenente colonnello Dalla Bona (battaglione Cividale, 153 compagnia del monte Arvenis, 278 del val Tagliamento e una compagnia mitragliatrici) schierato sui caposaldi della linea ponte della Serra – Col Faller – Col Falcon – Croce d’Aune.
Nella zona tra il forte Cima di Campo e Cima di Lan, erano dislocati il battaglione alpini monte Pavone e il battaglione val Brenta.
Le forze austriache, dal canto loro, cercavano di sfruttare al meglio le facili vittorie conseguite sul fronte isontino e già il 27 ottobre, quando ancora non si poteva capire l’entità dello sfondamento di Caporetto, il feldmaresciallo Conrad, comandante del gruppo armate del Tirolo, aveva deciso di dare il colpo di grazia all’Italia tramite un’offensiva che partendo dal Trentino si sarebbe sviluppata sull’altipiano di Asiago e in Valsugana, forzando il gruppo montano di Cimon di Rava per poi oltrepassarlo e scendere nella conca del Tesino e nella piana di Fonzaso; in questo modo si sarebbe tagliata al nemico la ritirata dalla val Cismon e dalla valle del Vanoi.
8. La battaglia di Cima Campo e l’occupazione austriaca dei forti del Brenta - Cismon
A seguito del non previsto arretramento italiano tra la Valsugana e il passo Rolle, vennero emanate dai comandi austriaci delle disposizioni per l’inseguimento delle truppe avversarie. In quel territorio era di stanza la 18 divisione, schierata tra Monte Civeron e Valpiana con il compito di tallonare le truppe contrapposte. La divisione era divisa in 2 colonne: la principale (1 brigata da montagna) da Castel Tesino su Arsiè, la secondaria (reparti della 185 brigata) lungo la Valsugana[43].
Gli scontri tra le due fazioni si ebbero sulla catena del Lagorai, tra Valpiana e passo Rolle dove erano schierate la 13 e la 9 brigata da montagna; la prima doveva occupare Cima d’Asta, il passo Broccon e la valle del Vanoi, mentre alla seconda toccava l’inseguimento lungo la valle del Cismon. Il 9 novembre, la 9 brigata, che era arrivata tra il passo Broccon e Pontet, fu assegnata alla 18ª divisione per assicurare la condotta unitaria di tutte le forze impegnate in quel settore del fronte della Valsugana.
Per fare in modo che il grosso della colonna italiana che stava ripiegando dal Bellunese non venisse catturata dagli avversari, si doveva opporre una resistenza sui monti. In merito a ciò, il generale Tettoni, inviò al maggiore Olmi, comandante del battaglione M. Pavione, l’ordine di non spostarsi dalle retrostanti posizioni di Col del Gallo (linea azzurra) ma di rimanere ad ogni costo sui rilievi costituenti la linea verde[44].
Il battaglione alpini M. Pavione, che faceva parte del 7 reggimento alpini ed era stato costituito a Feltre il 1 dicembre 1915 con le compagnie 148 e 149, alle quali poi si aggiunse, ceduta dal battaglione Feltre la 95[45]. Il battaglione all’inizio del ripiegamento faceva parte del gruppo Sirolli, dapprima distaccamento di copertura della 15 divisione e successivamente nucleo centrale della colonna Piva. Secondo le disposizioni iniziali del comandante del 18 corpo in merito al ripiegamento, al reparto sarebbe spettato sostituire nella zona di Cimon di Rava le truppe che dovevano ripiegare e anch’esso il giorno successivo avrebbe potuto iniziare il ripiegamento in fasi successive, valeva a dire la sera del 9 novembre raggiungere la cosiddetta linea Gialla (malga Morante – Monte Agaro – Picosta – Celado – Pasolin), la sera del 10 linea Verde (Cima Campo – Col Perer – Cima Lan – ponte della Serra) ed infine il 12, Monte Asolone, Monte Pertica e Solarolo.
Secondo il diario storico del battaglione, già dal 8 novembre il reparto lasciò la posizione di Cimon di Rava per trasferirsi a Col Perer con la 149 compagnia, mentre lo Stato Maggiore del battaglione, la 148 compagnia e le tre sezioni mitragliatrici col plotone esploratori si posizionarono a Cima Campo[46]. Con il precipitare della situazione, in quel momento di ripiegamento delle forze italiane nel settore, l’11 novembre i reparti austriaci, che erano giunti a Lamon, (1 brigata da montagna e la 9 brigata), iniziarono l’avanzata verso i forti Cima di Lan e Cima di Campo; in quella zona era dislocato il battaglione M. Pavione con il Natisone nelle alture che andavano dal precipizio della Valsugana al solco del torrente Cismon; la 149 compagnia (capitano Paviolo) presidiava l’ala destra tra il forte Cima Lan e Col Perer, la 95 (capitano Stufferi) era tra Col Perer e Langian, il plotone esploratori del tenente Arban e gli altri tre plotoni tra il forte Cima Campo e Casere Bettini, inoltre all’interno dell’opera era dislocato il comando del battaglione M. Pavione.
All’ala destra c’era il battaglione Val Brenta, con una batteria da montagna. Esso occupava Cima Lan, spingendosi fino al ponte della Serra (altre due batterie da 64 mm erano l’una appena a sud di Col Perer, l’altra sopra Fastro), mentre a sinistra reparti della brigata Aosta (6 reggimento fanteria) ed il battaglione Monte Rosa tenevano lo sbarramento di Tezze[47]. Nel pomeriggio dell’11 novembre le truppe del 6 reggimento di fanteria resistettero sullo sbarramento di Tezze sottoposto dalla notte precedente ad un intenso tiro di artiglieria. Le posizioni più scoperte vennero gradualmente alleggerite. In quella zona la situazione rapidamente divenne incontrollabile, perché nel pomeriggio dello stesso giorno, l’intera 55 compagnia del Vestone era stata circondata e catturata dall’avversario tra colle val d’Atenne e Costa Alta con la perdita di 255 alpini e 14 ufficiali.
Dopo aver ricevuto degli ordini dal comando di corpo d’armata riguardo ad un eventuale ripiegamento verso Primolano, si cercò di resistere in quella zona dove vennero catturati soldati italiani; riuscì a ritirarsi in extremis una squadra mista di alpini e fanti precipitandosi nei boschi sottostanti sotto la guida del sergente Cenci, il quale diede nel corso della sua deposizione per quei fatti parlò della situazione in cui vide il forte Lisser;
“Verso le dieci di mattina del 12 ci siamo diretti al monte Lisser, ma non ho trovato nessuno del battaglione e la linea telefonica era interrotta. Era pieno di feriti che gridavano e nel piazzale un drappello di carabinieri aveva fucilato tre alpini. Mi sono presentato all’ufficiale che accompagnava il maresciallo dei carabinieri, un capitano di fanteria che dato l’ordine di scendere subito a Enego che tanto il forte non importava, che era disarmato e che se lo prendessero pure che lui non aveva esplosivi e non gli avevano lasciato nemmeno da accendersi una sigaretta”[48].
Sia per il forte Lisser, come del resto le opere di Cima Campo e Cima Lan, avevano già segnato il loro destino dato che erano a tempo disarmate, tanto che anche da una relazione del generale Dal Fabbro del dopoguerra, a proposito del ripiegamento della 4 armata e dell’utilità degli sbarramenti per ritardare l’avanzata nemica, emergeva che “in una di quelle notti della prima decade di novembre 1917 il Comando supremo chiese telefonicamente a chi scrive se le opere di M. Lisser, Cima Campo e Cima Lan fossero in condizioni da venir utilizzate per rallentare l’avanzata nemica. Venne risposto: che dette opere, state disarmate da tempo delle artiglierie, erano in stato di completa disorganizzazione per quanto riflette l’armamento e che si sarebbero potute rimettere in relativa efficienza dislocando per quanto riflette l’armamento in esse delle batterie di artiglieria pesante campale, non ritenendo possibile armare nuovamente dette opere con l’armamento in dotazione delle stesse; che dette opere andavano poi rifornite di viveri e presidiate da truppa di fanteria per la difesa vicina; che tali operazioni avrebbero richiesto qualche giorno di tempo per essere compiute e che in fine l’ostacolo passivo rappresentato alla presenza di dette opere non era tale da ritardare la marcia dell’avversario il quale avrebbe potuto assai facilmente aggirare e sommergere le opere.
Il comando supremo non insistette ed i Comandi delle truppe in ritirata provvidero a far saltare le opere”[49].
Il forte Lisser venne abbandonato senza essere minato, mentre i forti Cima di Lan e Cima di Campo vennero occupati dai reparti austriaci dopo alcuni combattimenti.
Nella notte tra l’11 e il 12, secondo il diario del battaglione M. Pavione, “il nemico irradia in direzione di Col Perer e Col dei Borghi con numerosi pattuglioni d’arditi per attaccare l’opera, ma sono dai nostri nettamente respinti.
All’alba di detto giorno il nemico con forze preponderanti attacca il forte, ma ne viene subito ributtato. Verso le ore 11.30 il nemico con forze maggiori dei precedenti attacchi muove con 4 ondate successive alla presa del forte. Le prime 3 ondate nemiche sono sbaragliate dalla salda e magnifica resistenza opposta da nuclei di Cima Campo. La 4 ondata però data la preponderante superiorità numerica dei nemici non può malgrado l’eroica resistenza dei nostri essere trattenuta dimodochè il nemico può circondare il forte. I nostri all’interno del forte con una resistenza accanita guidati dal magnifico esempio del comandante del battaglione maggiore Olmi resistono malgrado i reiterati attacchi nemici fino alle ore 17.30 del giorno 12”[50].
In realtà l’eroica resistenza di cui parla il diario storico non ci fu perché già a partire dalle ore 17.00 il tenente colonnello Sirolli, comandante del gruppo alpino, aveva telefonato a Cismon e dopo aver elogiato il comportamento del battaglione alpino rendeva noto che tutte le truppe coinvolte nel ripiegamento potevano ritirarsi oltre la confluenza Brenta – Cismon, ma il maggiore Olmi che aveva capito di essere circondato dalle forze avversarie cercò in tutti i modi di rallentare l’avanzata austroungarica resistendo il più possibile[51].
Alle ore 18.00 quando i soldati e gli ufficiali del M. Pavione erano oramai senza speranza di fuga, il maggiore Olmi allo scopo di evitare ulteriori spargimenti di sangue comunicò ad un ufficiale degli Standeschützen del battaglione Meran la resa del forte. Gli austriaci entrati all’interno dell’opera fortificata videro che erano già state predisposte le cariche d’esplosivo e i collegamenti per la demolizione di Cima Campo. Furono catturati secondo le cifre ora in possesso 12 ufficiali e 300 soldati compreso il comandante del battaglione.
L’occupazione del forte Cima di Lan fu meno faticosa e drammatica rispetto al vicino Cima di Campo: prima che le truppe della 9 brigata da montagna occupassero l’opera fortificata ormai abbandonata, gli italiani la fecero saltare in aria. Il forte venne sgomberato verso le ore 16.00 dagli alpini del battaglione Val Brenta sotto la pressione del 3 reggimento Kaiserschützen della 9 brigata che il giorno prima aveva preso Lamon per puntare poi su Arina. Una testimonianza interessante in merito alla conquista di Cima di Lan è quella del Kaiserschützen altoatesino Andrea Vescoli del 3 reggimento, in un suo scritto così parlava dell’azione:
“il 12 novembre siamo partiti che era ancora notte dal paesino della Arina per prendere un forte agli alpini. Si marciava nel bosco e in alto c’èra già la neve e faceva freddissimo perché era più di mille metri. Un paio di camerati si erano sdraiati a riposare, avevamo dormito solo tre ore in due giorni, ma l’ufficiale li ha puntati con la pistola dicendo o ripartire o morire. Si sono messi a piangere ma hanno continuato a camminare con me che li ho dato del rum delle mia borraccia. Tenevo il rum perché acqua ne avevano a sai intorno, bastava la neve. Gli alpini non sparavano tanto, ma non si vedeva bene perché c’èra la nebbia e le ombre sembravano amiche e nemiche insieme. Al nostro caporale il capitano aveva detto che se prendiamo il forte possiamo riposare, che c’èra dentro il ben di Dio, ma non era vero. Vicini alla cima siamo andati all’assalto ma gli alpini non c’è n’erano più. Solo un ferito alla pancia che piangeva e chiamava sua mamma. Lo abbiamo caricato sulla barella – sanità e avviato indietro, ma in quell’attimo il forte è scoppiato in aria con rumore tremendo e sassi piovevano tutti in giro. Siamo entrati dopo ma era una rovina e siamo scesi nella valle sotto. Tutti erano arrabbiati con gli italiani perché ci pareva che avevano voluto rovinarci il forte e il nostro riposo, e allora abbiamo dormito nelle case con i civili terrorizzati”[52].
L’episodio in questione così venne riportato dall’ufficiale comandante il 3 reggimento Kaiserschützen, colonnello Lercher nella relazione della battaglia che iniziò al comando della 9 brigata:
“L’assalto contro Col di Lan fu condotto secondo quanto richiesto dagli ordini. Il nemico oppose strenua resistenza. Quando il reggimento era in procinto di sferrare l’attacco decisivo, l’avversario fece saltare in aria il forte. Alle 4 del pomeriggio la fortificazione era in nostro possesso. Il Col di Lan era difeso dal battaglione Pavione del 7 reggimento alpini. I prigionieri ammisero che il battaglione si raccoglieva a Col del Gallo. Finora il numero dei prigionieri somma a 90 alpini”[53].
Durante gli scontri avvenuti nelle vicinanze del forte Cima di Lan ci furono da parte austriaca 1 ufficiale ferito, 1 alfiere morto ed uno ammalato mentre, tra la truppa, 3 morti, 41 feriti, 25 ammalati e 7 dispersi[54].
Il 9 novembre, la 9 brigata che era arrivata tra il passo Broccon e Pontet fu assegnata alla 18 divisione per assicurare la condotta unitaria di tutte le forze impegnate in quel settore del fronte della Valsugana. Nel contempo, venne fatta brillare la tagliata stradale Covolo di S. Antonio, verso le ore 22 dell’11 novembre per opera del drappello della 7 compagnia minatori affiancata alla 153 compagnia del battaglione M. Arvenis, comandata dal capitano Cardoni.
Il 13 novembre a partire dalle ore 2.00 i distaccamenti dei gruppi Streva e Sirolli si concentrarono progressivamente a Cismon, raggiunti all’alba anche dal battaglione Monrosa. Gli ultimi drappelli di fucilieri del Monrosa incaricati della protezione dei drappelli del Genio si trattennero nella conca di Primolano fin verso le ore 8.00 per attuare il brillamento della tagliata Scala e Fontanella per opera della 114 compagnia zappatori agli ordini del tenente Sburlati, protagonista anche della parziale distruzione del Tombion avvenuta lo stesso giorno.
Gli scontri di Cima Campo e Cima Lan ebbero un certo risalto nella stampa austriaca, tanto che la rivista Linzer Volksblatt scriveva:
“Dal quartier generale austriaco. Feltre e Primolano presi. Di nuovo un forte corazzato conquistato. Vienna 14 novembre. Ufficialmente si comunica: 14 novembre mezzogiorno. Le nostre truppe entrarono in Feltre e Fonzaso. Ai due lati della Valsugana l’armata del generale d’artiglieria Scheuschenstühl ampliò notevolmente i vantaggi raggiunti negli ultimi giorni. Le sue divisioni raggiunsero Primolano espugnarono fra le alte nevi parecchie opere fortificate a mattina di Asiago e un forte corazzato sul monte Lisser”[55].
Nel corso delle 4 giornate di scontri dal 10 al 14 novembre, la colonna Piva secondo le cifre ufficiali aveva avuto come perdite oltre 900 uomini tra i quali 22 ufficiali; la quasi totalità delle perdite circa 905 soldati e 19 ufficiali erano da annoverarsi tra i dispersi, la maggior parte catturati dal nemico, solamente 6 morti e 17 feriti.
9. Conclusioni
La Fortezza Brenta – Cismon, come del resto la maggior parte delle fortificazioni italiane non venne interessata direttamente dalle operazioni belliche dei primi mesi del conflitto, quando prima di tentare delle azioni offensive da parte delle fanterie si svolse la cosiddetta “guerra dei forti”, in poche parole il bombardamento delle opere italiane dell’altipiano di Asiago verso le contrapposte fortificazioni austriache. La vita bellica della Fortezza Brenta – Cismon non fu ricca di episodi di una qualche rilevanza storica, all’infuori che i combattimenti dei primi giorni di novembre 1917, quando oramai i forti disarmati non potevano più assolvere il loro compito difensivo.
Con questi presupposti, si può delineare la sorte che sarebbe toccata ai forti della Valsugana, se pesantemente bombardati dai grossi calibri austriaci, visto che la loro struttura architettonica era uguale ai forti Campolongo e Verena, severamente danneggiati nel giugno 1915. Il sistema difensivo del settore Brenta – Cismon era formato da opere antiquate (come la Tagliata Covolo di S. Antonio, Tombion, Scala e delle Fontanelle) e da torti dell’ultima generazione, modello Rocchi (Cima Campo, Cima Lan e Lisser), tra di loro non omogenee.
Uno dei più eclatanti errori, che vennero commessi nella progettazione e costruzione dei forti italiani, fu che non si tenne conto della corsa agli armamenti a livello europeo fin dalla fine dell’800 ed in particolar modo negli Imperi Centrali. Lo sviluppo delle artiglierie ebbe una accelerazione data la presenza di industrie belliche come la Krupp e la Skoda, che nel giro di un decennio svilupparono dei cannoni che data la loro potenza distrussero i forti italiani, la cui copertura poteva resistere ai medi calibri quali il 152 mm, mentre nulla potevano con gli obici da 305, 381 e 420 mm. Già prima dello scoppio della guerra in Italia, alcuni ufficiali erano a conoscenza dei gravi limiti dei forti italiani, tanto che il generale Dal Fabbro sosteneva in merito che “le opere corazzate erano state previste per resistere alle artiglierie di medio calibro. Le corazze avevano spessore di 140 mm ed erano di acciaio al nichelio. Le avancorazze erano di ghisa indurita. Gli spessori delle masse coprenti di calcestruzzo erano di 2.00 m. in corrispondenza dell’asse delle riservette dei locali munizioni e del corridoio di batteria. le polveriere erano in caverna, ed il servizio munizioni disimpegnato mediante carrelli ed elevatori. Nessuna di dette opere aveva spessori di masse coprenti sia corazzature che calcestruzzo tali da poter resistere alle artiglierie nemiche di grosso calibro. Perciò fino dal principio della guerra, anzi da quando durante la neutralità giunsero le notizie relative agli effetti prodottiti dal 420 e dal 305, si comprese che poco assegnamento si poteva fare sulla resistenza di tali opere qualora il nemico fosse riuscito ad impiegare contro le nostre opere le ora dette bocche da fuoco di grosso calibro. Gli effetti già accennati, prodotti da due proiettili da 305 contro l’opera di M. Lisser mostrarono come, rettificato il tiro di tali bocche da fuoco, pochi colpi sarebbero stati sufficienti per smantellare anche le nostre opere corazzate. Il tiro delle bocche da fuoco di grosso calibro non era altra difesa possibile all’infuori di quella data dall’occultamento, dal mascheramento e, dove possibile, dalla sistemazione delle batterie in caverna”[56].
I vantaggi dei forti modello Rocchi riguardavano in primo luogo le dimensioni molto ridotte dell’opera, che ne facevano un bersaglio poco visibile, quindi molto difficile da colpire.
Leithner, tenente colonnello dello Stato Maggiore del Genio austro-ungarico, autore di un libro di fortificazione permanente, tradotto in italiano dall’allora maggiore del Genio Rocchi, sosteneva come opportuna la disposizione semplice e chiara delle singole parti e specialmente il collocamento degli affusti corazzati in linea retta, uguale alla posizione normale di fuoco di una batteria ordinaria[57].
Questa osservazione dell’autore, alla luce dell’esperienza della guerra, era errata perché uno dei limiti dei forti italiani e, se vogliamo dire, uno dei punti vulnerabili fu proprio la disposizione rettilinea delle cupole corazzate; un esempio si ebbe nel disastro del forte Verena nel giugno del 1915, dove a causa dello scoppio di una granata da 305, l’intera batteria venne messa fuori combattimento. Analizzando i difetti di questo progetto costruttivo, innanzitutto si nota: il profilo del fossato di gola che, con un rivestimento di scarpa insufficientemente protetto e con la controscarpa non protetto era singolare, perché il sistema allora utilizzato negli altri paesi europei ne era il contrario. La chiusura della gola per mezzo di una lamiera di ferro non poteva resistere all’effetto delle granate perché troppo debole. Per la difesa ravvicinata non veniva più utilizzato l’armamento su affusto corazzato perché non era sicuro. Calcolando il costo approssimativo dell’opera in esame risultava che: “l’ammontare delle opere di terra, di muratura e di metallo risultava di poco inferiore a £. 400.000, alla quale somma bisogna aggiungere l’importo dell’armamento mobile e le spese di espropriazione (un milione di lire, all’incirca, in totale)”[58].
La fortuna delle fortificazioni del settore in esame, fu che con l’avanzata delle truppe italiane della 15 divisione oltre il confine di stato nei primi giorni di guerra non ci fu il pericolo che i forti potessero venir bombardati dai grossi calibri austriaci; sorte ben peggiore toccò in particolar modo al forte Verena, dove morirono oltre 40 militari tra ufficiali, sottoufficiali e militari.
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L’autore ringrazia per la preziosa collaborazione il prof. Dal Fabbro e l’amico Luca Girotto.
[1] Archivio Dal Fabbro (A.D.F.), relazione del Comitato delle armi di Artiglieria e Genio riguardante i progetti particolareggiati riguardanti le costruzioni di due caserme difensive sulle posizioni di Cima Campo e Cima Lan sulle valli Brenta Cismon, Roma, 20 maggio 1884.
[2] Giovanni Ivanoff (1851 – 1917), nato a Trieste da una famiglia proveniente da Cracovia ma originaria della Russia, figlio addirittura di un ufficiale che aveva combattuto a Lissa contro gli italiani, laureatosi in ingegneria a Vienna ed occupato presso il Municipio della città giuliana come ingegnere civile, simpatizzò ben presto con gli studenti italiani tanto da fuggire in Italia nel 1882, insieme con altri patrioti come Francesco Marsich, Ettore della Conca e Guglielmo Oberdan. Come fuoriuscito ottenne un posto di ingegnere civile, ma data la sua competenza in materia di costruzioni militari; fu posto al servizio del genio militare: fu così lui a progettare tra l’82 e l’86 la Tagliata della Scala e a dirigerne i lavori fino al 1895 e a seguire le fortificazioni presso Tai e Pieve di Cadore, nonché gli importanti lavori sulle strade della Cavalleria e di Alemagna. Dal 1895 al 1910 egli attese poi ai lavori dei forti di Cima di Campo e Cima di Lan e fu incaricato anche di importanti costruzioni civili nell’Adriese e nella zona di Fadalto. Morì nel 1917 ad Arsiè dove si era stabilito fin dall’inizio e dove aveva sposato Emma Fusinato, della nota ed illustre famiglia del poeta Arnaldo e di tante altre personalità.
[3] L. Girotto, 1866 – 1918, Soldati e fortezze da Asiago al Grappa, Rossato, Novale – Valdagno, 2002, p. 82.
[4] A.D.F., diario di costruzione del forte di Cima Campo, s.l., s.d.
[5] A. Guidetti, La fortificazione permanente, Bertinatti, Torino, 1913, p. 46.
[6] Ivi, p. 47.
[7] L. Malatesta, Gli studi del generale Enrico Rocchi e il suo modello costruttivo, in Castellum, n. 44, Roma, 2002, pp. 29 – 38.
[8] E. Rocchi, La forticazione in montagna, Edizioni Voghera, Roma, 1898.
[9] E. Leithner, La fortificazione permanente e la guerra di fortezza, a cura di E. Rocchi, Edizioni Voghera, Roma, 1897, pp. 106-107.
[10] Archivio Dal Fabbro (A.D.F.), diario di costruzione del forte Cima di Campo, s.l., s.d..
[11] Ivi, giorni 5,12 settembre 1906.
[12] F. Nanfara, Arsie Briciole storiche, Tipografia D.B.S., Seren del Grappa, 1994, p. 288.
[13] F. Minniti, Primi orientamenti sulla dislocazione delle scelte matrimoniali degli ufficiali dell’esercito (1861 – 1906), in Esercito e Città dall’unità agli anni trenta. Atti del convegno nazionale di Spoleto, 11 – 14 maggio 1988, a cura di G. Antonelli, Roma, 1989, pp. 297 – 319.
[14] A.D.F., lettera del Comando della divisione militare di Padova al maggiore Dal Fabbro, Padova, 15 novembre 1911.
[15] A.D.F., circolare del Ministero della guerra riguardante il matrimonio degli ufficiali, Roma, 31 luglio 1911.
[16] A.D.F., lettera del maggiore Dal Fabbro al Comando della divisione militare, Cima Campo, 18 dicembre 1911.
[17] A.D.F., lettera del Comando della divisione militare di Padova al maggiore Dal Fabbro, 29 settembre 1911.
[18] A.D.F., lettera del maggiore Dal Fabbro al Comando della divisione militare di Padova, Cima Campo, 30 settembre 1911.
[19] Ibidem.
[20] Ibidem.
[21] A.D.F., promemoria del capitano Tiraboschi al maggiore Dal Fabbro, Enego, 2 ottobre 1911.
[22] A.D.F., lettera del Comando della divisione militare di Padova al maggiore Dal Fabbro, Padova, s.d.
[23] A.D.F., lettera del maggiore Dal Fabbro al Comando della divisione militare di Padova, Cima Campo, 14 settembre 1911.
[24] Ibidem.
[25] A.D.F., circolare del Comando della divisione militare di Padova, 19 ottobre 1911.
[26] L. Girotto, 1866 – 1918, cit., p. 154.
[27] L. Malatesta, Il generale Roberto Brusati nella grande guerra, in Rassegna Storica del Risorgimento, n. 1, Roma, 2003, pp. 9 – 46; G. Rochat, Roberto Brusati, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, vol. 14, Roma, 1974, pp. 691 – 693.
[28] Ministero della difesa, Sme, Ufficio Storico, L’esercito italiano nella grande guerra (1915 – 1918), vol. 2, Le operazioni del 1915, tomo 2º bis, Roma, 1929, p. 125.
[29] L. Girotto, 1866 – 1918, cit., p. 227.
[30] Ibidem.
[31] A.D.F., relazione, cit., pp. 7 – 8.
[32] L. Malatesta, La guerra dei forti. Dal 1870 alla grande guerra le fortificazioni italiane ed austriache negli archivi privati e militari, Nordpress, Chiari, 2003.
[33] L. Girotto, 1866 – 1918, cit., p. 223.
[34] A.D.F., notizie, cit., p. 9.
[35] L. Girotto, 1866 – 1918, cit., p. 270.
[36] Ibidem.
[37] A.D.F., notizie, cit., pp. 9 – 10.
[38] A. Tosti, Il maresciallo d’Italia Guglielmo Pecori Giraldi, Tipografia Bona ,Torino, 1940.
[39] Ministero della difesa, L’esercito, vol. IV, tomo 3º, cit., p. 539.
[40] L. Girotto, 1866 – 1918, cit. p. 274.
[41] Ministero della difesa, L’esercito, vol. IV, tomo 3º, cit., p. 539.
[42] L. Girotto, La lunga trincea, Rossato, Novale – Valdagno, 1996, p. 441.
[43] Ivi, p. 275.
[44] Ivi, p. 320.
[45] M. Barilli, Storia del 7º reggimento alpini, Tipografia Castaldi, Feltre, 1958, p. 370.
[46] A.U.S.S.M.E., fondo “Diario storico 1ª guerra mondiale”, repertorio B-1, racc. 2029 b, diario storico del battaglione M. Pavione, s.l., 8 novembre 1917.
[47] L. Girotto, 1866 – 1918, cit., p. 320.
[48] Ivi, p. 302.
[49] A.D.F., notizie, cit., p. 11.
[50] A.U.S.S.M.E., fondo “Diari storici 1ª guerra mondiale”, repertorio B – 1, racc. 2029 b, s.l., 11
[51] M. Barilli, Storia, cit., p. 377.
[52] L. Girotto, 1866 – 1918, cit., p. 303.
[53] W. A. Dolezal, I forti dimenticati, Pilotto, Feltre, 1999, pp. 62 – 63.
[54] Ivi, p. 63.
[55] L. Girotto, 1866 – 1918, cit, p. 315.
[56] A.D.F., notizie, cit., pp. 11 – 12.
[57] Ivi, p. 109.
[58] Ivi, pp. 111-112.iper modificare.